Mentre in Ungheria è in corso la più pesante svolta repressiva degli ultimi tempi, c’è qualcosa che non cambia: la fedeltà di Giorgia Meloni ai rapporti con Viktor Orbán e la lentezza, mista a mancanza di volontà politica, di Ursula von der Leyen.

I fatti recenti confermano questa tendenza: da una parte c’è l’attuale governo italiano, che isola il paese in sede di Consiglio evitando di supportare la dichiarazione a difesa del libero Pride in Ungheria. Dall’altra c’è la Commissione europea che avrebbe gli strumenti per congelare le ultime leggi repressive – o almeno attivarsi in tal senso – e invece non lo fa.

Gruppetto illiberale

L’Italia di Giorgia Meloni, come la Slovacchia del sodale orbaniano Robert Fico, è tra i pochi rimasti fuori. Il 27 maggio un’ampia cordata di stati membri dell’Unione europea – Austria, Belgio, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia – ha sottoscritto una dichiarazione per esprimere «profonda preoccupazione per i recenti emendamenti costituzionali e modifiche legislative che violano i diritti fondamentali delle persone lgbt».

Il riferimento è al “divieto di Pride”: questa primavera, sfruttando l’ampia maggioranza parlamentare di cui dispone, Fidesz, il partito del premier ungherese, ha imposto il divieto di parata lgbt in pubblico, con tanto di multe a chi lo viola e uso di sorveglianza facciale. La mossa si incardina sulla legge nota come “legge anti lgbt” approvata in Ungheria nel 2021.

Già su quella, il governo Meloni aveva tirato l’Italia fuori dalla grande iniziativa europea per fermare il provvedimento con una sfida legale che teneva insieme la Commissione e una gran quantità di stati membri dell’Ue, come Francia e Germania.

Bruxelles attendista

«Il gender è il grande problema d’Europa», sostiene da tempo l’autocrate ungherese, che nel 2022, in occasione delle ultime elezioni, aveva anche apparecchiato un referendum in materia. Ma il divieto di pride è anche una prova generale di limitazione del diritto di assemblea e di esercizio di controllo sociale, tra multe e sorveglianza.

Si accompagna alla nuova legge «sulla trasparenza» (nota come “legge russa”) con cui il sistema orbaniano intende colpire tutti i media e le organizzazioni non allineati con la propaganda governativa. Da quando il suo avversario Péter Magyar lo ha scavalcato nei sondaggi, il premier ungherese sta inasprendo le sue mosse; ha persino inaugurato un “Fight Club” per mobilitare i suoi sostenitori contro il competitor.

È vero che la Commissione europea si è già rivolta alla Corte di giustizia europea per svariate mosse ungheresi (ad esempio la “legge sulla sovranità” della quale la “legge russa” è un seguito). Ma avrebbe la possibilità di sospendere attivamente i provvedimenti attivando le cosiddette «misure ad interim». E non lo fa.

Già in passato, Ursula von der Leyen ha rinviato l’attivazione del meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto – la possibilità di congelare fondi Ue a chi lo viola – aspettando le elezioni ungheresi del 2022; poi ha gettato scandalo annunciando lo scongelamento parziale quando i governi volevano sbloccare un veto orbaniano sull’Ucraina. Anche stavolta, too little, too late.

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