«Elimineremo le cimici», aveva preannunciato il premier, che vuole liberarsi del dissenso e del competitor Magyar. Il disegno di legge “sulla trasparenza della vita pubblica” concretizza il piano, stabilisce liste nere per media liberi e ong. E segna un punto di svolta
Il diavolo è nei dettagli e il regime si nasconde nei commi. Una nuova legge – ribattezzata «legge russa» perché usa l’argomento degli agenti stranieri per reprimere il dissenso – mira a fare piazza pulita di qualsiasi realtà possa esprimere un punto di vista critico sul governo, dai giornali alle organizzazioni della società civile.
Da Budapest arrivano messaggi allarmati: «Viktor Orbán vuole far chiudere i media indipendenti», scrive un collega. «Con questa legge Orbán lascia la democrazia», commenta un analista. Le testate e le ong lanciano appelli, raccolgono firme.
E se si pensa che pure il biografo critico del premier – tra i primi a denunciarne le derive «autocratiche» – percepisce una svolta senza precedenti, si avrà l’idea della portata: «Siamo in un regime», dice a Domani lo storico Stefano Bottoni.
La «legge russa» si somma al provvedimento per vietare in pubblico il gay pride, con il quale il sistema orbaniano introduce di fatto il divieto di assemblea e sdogana la sorveglianza facciale. Inoltre ieri la Procura ha chiesto due anni e mezzo di carcere per Zoltán Varga, il proprietario di 24.hu, uno dei pochi grandi media indipendenti rimasti. Già da anni Varga denunciava di essere nel mirino del sistema orbaniano.
Sembra insomma che si stia concretizzando il timore espresso mesi fa dalle colonne di questo giornale: l’imminente radicalizzazione del sistema. A innescarla sono almeno due fattori, paura e impunità.
La paura è quella di Orbán, che si vede superato nei sondaggi dal competitor Péter Magyar, e che quindi per la prima volta dopo 15 anni ha la sensazione di poter perdere la presa sull’Ungheria.
La liceità è quella che può garantire il nuovo clima internazionale, con l’amico Trump primo fra tutti a scegliere l’autoritarismo contro giornali, ong, giudici e via dicendo.
La svolta di mezzanotte
Galvanizzato proprio dalle mosse trumpiane, a cominciare dai tagli a Usaid, Orbán ha fatto intendere i suoi piani nel discorso del 15 marzo, in cui faceva riferimento a leggi per sbaragliare i critici. «Dopo questo giorno di festa arriveranno le grandi pulizie di primavera. Le cimici sono sopravvissute all’inverno: smantelleremo la macchina finanziaria che coi dollari ha comprato politici, giudici, giornalisti, false ong e attivisti. Sfolleremo l’intera armata fantasma».
Il disegno di legge “sulla trasparenza della vita pubblica” viene presentato in Parlamento, nel buio della mezzanotte di martedì, per mano del deputato fidesziano János Halász, ma la testa è come al solito quella di Orbán. Data la stra-maggioranza d’aula su cui il premier si appoggia, non vi sono dubbi che nei prossimi giorni la proposta abbia i numeri per essere approvata.
Per comprenderne il dispositivo, pieno di riferimenti all’Ufficio per la protezione della sovranità, bisogna risalire a un’altra legge liberticida – la “legge sulla sovranità” del 2023 contro la quale la Commissione si è rivolta alla Corte di giustizia Ue – che prevedeva l’istituzione di questo ufficio, il cui presidente viene proposto dal premier (e infatti è a lui vicino). La legge del 2023 stabiliva che «un’organizzazione non deve usare supporti o donazioni atti a influenzare la volontà degli elettori»; già all’epoca i giornali indipendenti, intervistati su Domani, temevano «il modo in cui sarà usato il dispositivo».
La conferma di questi timori arriva con la proposta di martedì: è una spina infilata nella presa della legge sulla sovranità; è la fase in cui il disegno trova realizzazione. Il nuovo disegno di legge non si limita a stabilire che «le organizzazioni non possano accettare finanziamenti esteri senza autorizzazioni». Prevede liste nere. L’Ufficio per la protezione della sovranità, «sulla base delle sue attività investigative, propone al governo l’elenco di organizzazioni le cui attività minacciano la sovranità dell’Ungheria».
A definire il perimetro della «minaccia» non è solo la presenza di finanziamenti esteri (dove per «stranieri» si intendono «anche gli ungheresi con doppia cittadinanza», dunque basta una loro donazione per trascinare un giornale nella lista) ma pure l’osservanza di alcuni articoli costituzionali: quello in cui si definisce l’Ungheria uno stato di diritto democratico (dunque guai a criticare le derive orbaniane), quello sulla famiglia tradizionale e così via. Si etichetta come minaccia ciò che è disallineato rispetto alla propaganda governativa.
«Le organizzazioni nella lista non potranno accettare finanziamenti esteri senza autorizzazione, né beneficiare di sgravi fiscali; dovranno dichiarare il proprio patrimonio» e così via. E perché per lo storico dell’Europa orientale Bottoni, che vive a Budapest, questa è una svolta verso «il regime»? Perché «l’obiettivo dei provvedimenti è creare, attraverso l’Autorità per la protezione della sovranità, un quadro paragiuridico che permetta al governo di ostacolare con metodi amministrativi – quindi senza coinvolgimento della magistratura – un’ampia gamma di organizzazioni, fino a giungere ai partiti come Tisza», fondato da Magyar, avanti nei sondaggi.
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