Lo scorso febbraio, Annegret Kramp-Karrenbauer, da poco più di un anno alla guida della Cdu e delfina di Angela Merkel alla cancelleria, annunciava le sue dimissioni. L’ultima prova della sua esperienza, fallita, era stata l’elezione in Turingia di un presidente (il liberale Thomas Kemmerich) con i voti del partito di estrema destra Alternative für Deutschland, un’alternativa impensabile per il sistema partitico tedesco e per la Cdu.

La vicenda

Akk, l’acronimo utilizzato dalla stampa per l’ancora ministra della Difesa, era rimasta a difendere la linea che escludeva ogni possibile accordo con la destra di Afd e con la Linke, la sinistra, del presidente uscente Ramelow. Una posizione indifendibile, perché, equiparando AfD e Linke, impediva anche solo la formazione di un governo Ramelow di minoranza che portasse il Land a nuove elezioni, producendo uno stallo irrisolvibile. Lo scontro interno nel partito, che covava da tempo, è esploso con l’elezione di Kemmerich: Akk (con l’appoggio di Merkel) ha chiesto che l’alleanza fosse annullata (cosa che poi è avvenuta) ma alla fine ha deciso di dimettersi, considerando ormai compromessa la sua autorità.

La Cdu avrebbe dovuto tenere il proprio congresso già nella scorsa primavera, ma la pandemia ha determinato due rinvii. Si terrà a gennaio, in una modalità mista: la discussione sarà interamente online (15-16 gennaio 2021), il voto per il nuovo presidente sarà sia elettronico (la prima votazione e il probabile ballottaggio) che postale. L’annuncio finale sarà dato il 22 gennaio, dopo lo scrutinio: momento necessario giuridicamente secondo la legge tedesca che disciplina la vita dei partiti politici.

La corsa

A contendersi la guida del partito saranno Friedrich Merz (classe 1955), già candidato due anni fa e sconfitto da Akk, Armin Laschet (1961), presidente del Land Nordrhein-Westfalen, e Norbert Röttgen (1965), presidente della commissione Esteri del Bundestag e, al momento, il candidato con minori possibilità di vittoria.

Nel 2018, al congresso di Amburgo Akk superò Merz al ballottaggio perché il partito non se la sentì di voltare le spalle, dopo diciotto anni, alla cancelliera. I delegati sapevano che l’elezione di Merz, che anni fa ha lasciato la politica proprio per un radicale dissenso con le scelte di Merkel, avrebbe rappresentato uno schiaffo per il governo.

Qui sta il problema di svolgere questi appuntamenti online: il congresso non è organizzato per mozioni formali a sostegno dei candidati. I vari partiti locali inviano delegati che costituiscono un corpo elettorale e che nei due giorni di congresso discutono, ascoltano e poi votano.

I sondaggi condotti due anni fa tra gli iscritti davano in testa proprio Merz, ma il voto del congresso è andato in un’altra direzione. Anche quest’anno è lui il favorito e nei mesi scorsi ha tuonato contro il nuovo rinvio dell’appuntamento: «È una strategia per impedirmi di vincere». Del resto la Cdu di oggi non è più legata come due anni fa ad Angela Merkel e questa volta i delegati potrebbero decidere di affidarsi alla sua guida: in un congresso online, le mediazioni e i confronti tra delegati sono di fatto azzerati.

Il liberale

Merz ha adottato, di nuovo, una strategia che qualcuno ha definito in stile Trump: bordate contro alleati e avversari. Vuole riconquistare il vecchio elettorato conservatore (ad esempio con un’ambiguità rivolta al ministro della Salute Jens Spahn che è sembrata riavvicinare l’omosessualità alla pedofilia) o sulla pandemia («Lo stato non deve occuparsi di come trascorro il Natale con la mia famiglia», ha detto).

Tuttavia, al di là delle ovvie schermaglie da campagna elettorale, Merz è molto meno radicale di quello che possa sembrare: è un europeista convinto (e più che soluzioni istituzionali pensa a progetti di partenariato economico, sul modello Airbus), condivide le preoccupazioni del governo tedesco sulle proposte francesi di una autonomia dalla Nato ma è realista sui rapporti con la Russia.

Insieme agli altri due candidati, considera il rapporto con la Cina una sfida da giocare come Europa.

Certamente lo stile della sua guida sarebbe molto diverso da quello di Merkel ma tutto sommato in continuità con gli ultimi anni, soprattutto in politica estera.

Il suo dirigismo, che a volte sfocia in arroganza, potrebbe persino risultare decisivo per superare lo stallo in tanti ambiti, come ad esempio l’immigrazione. In particolare, potrebbe meglio interpretare la richiesta di cambiamento che viene dalla società tedesca e, così, contribuire a contenere il populismo di destra.

Differenze superficiali

Laschet è, invece, uno storico alleato e sostenitore della cancelliera, e sino a oggi ha cercato di presentarsi come il candidato in perfetta continuità con la sua politica, persino con il suo sforzo di trasformare i conservatori tedeschi: è questa la vera differenza con Merz, che tiene a presentarsi come l’alfiere della vecchia tradizione della Cdu, prospettiva che Laschet boccia come irrealistica.

Una differenza che appare, però, più strategica che sostanziale e dovuta soprattutto al pragmatismo di Laschet maturato nel governo del Land.

È la politica interna quella che divide i tre candidati: come intervenire sul mondo del lavoro, sulla scuola, come riformare la sanità, qui Merz è molto più liberista, persino rispetto alla tradizione dell’economia sociale di mercato.

Nel suo ultimo libro nemmeno si preoccupa della crescente disuguaglianza nella società tedesca: ed è forse uno dei suoi problemi nel presentarsi all’elettorato, visto anche il suo ingente patrimonio personale come avvocato e lobbysta.

Centrale sarà anche quale coalizione uscirà dalle elezioni del 2021: al momento sembra probabile un’inedita coalizione tra Conservatori e Verdi e con questi ultimi, che hanno di recente approvato un nuovo programma fondamentale, il prossimo presidente della Cdu dovrà fare i conti.

Le differenze, tuttavia, finiscono qui: come Merz, Laschet crede che l’elezione di Biden possa rappresentare un’opportunità per un rapporto nuovo e costruttivo con gli Usa dopo gli anni di Trump; sulla Turchia come pure la Cina, i tre candidati hanno posizioni molto simili che, tranne alcune differenze di forma, rispecchiano l’attuale politica tedesca.

Sul gasdotto Nord Stream 2, Laschet è quello per ora più pragmatico (considerandolo un progetto puramente economico), Merz fa più attenzione ai rapporti con i paesi dell’Europa dell’est, ostili a un’infrastruttura che li taglierebbe fuori dal business del gas, e chiede una maggiore condivisione dell’opera.

Röttgen sino a oggi ha assunto toni molto vicini a quelli di Laschet, è un grande esperto di questioni internazionali, fautore di un ruolo più attivo della Germania e dell’Unione europea, nel 2019 fu tra i pochi sostenitori di un intervento europeo in Siria a difesa dei curdi.

Tra i tre è quello più europeista per convinzione autentica ma, complice la pandemia, è quasi scomparso dal dibattito pubblico.

Tutti contro Afd

Tutti rifiutano, comprensibilmente, qualsiasi collaborazione con Afd: tuttavia, se la destra tedesca è da qualche tempo in difficoltà (non solo per la pandemia), la gestione dei parlamenti regionali nei quali Afd è presente renderà quantomeno complicata la concretizzazione di questo principio.

Anche sull’Europa, i tre sono vicinissimi. Autonomia strategica del continente (che è un obiettivo dello stesso governo federale e che significa la necessità di produrre una risposta continentale, ad esempio, alle sfide della pandemia o dell’informatizzazione e dell’intelligenza artificiale) e approfondimento dell’integrazione solo in base a regole condivise, a partire da quelle attualmente in vigore, che anzi vanno usate per incardinare nei trattati interventi presenti e futuri (come nel caso del Recovery fund): si tratta della strategia che Berlino ha elaborato in questi anni.

Il secondo scontro

A gennaio sapremo chi guiderà la Cdu e chi dovrà poi confrontarsi con Markus Söder, il presidente della Baviera e capo della Csu, partito gemello regionale della Cdu, per ottenere la candidatura di tutto il mondo conservatore.

Merz è l’unico dei candidati che non può permettersi ulteriori rinvii: l’anno prossimo compirà 66 anni e perdere questa occasione significherebbe abbandonare definitivamente le speranze di guidare il paese.

Se dovesse vincere, reclamerebbe senza indugio la candidatura alla cancelleria.

Se fosse eletto Laschet, invece, la sfida sarebbe ancora aperta, soprattutto sulla gestione della pandemia nel suo Land e nella Baviera di Söder, che anche per questo si stanno caratterizzando per un approccio molto diverso alla gestione della pandemia.

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