Peggio di un disastro, c’è un tentativo disastroso di porvi riparo. Dopo aver montato ad arte un caso migranti, il governo Meloni è scivolato sulle proprie inadeguatezze: non avendo saputo maneggiare i delicati equilibri con la Francia, ha fatto deflagrare pure un caso Italia-Francia.

Ora che da caso è nato un altro caso, l’esecutivo è in fibrillazione: cerca sponde ovunque può. Da una parte crea il “frontino” degli illiberali del sud contro le ong (insieme a Cipro, Malta e Grecia), dall’altra spera nell’interpolazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Da un lato c’è Antonio Tajani, ministro degli Esteri, che va al Consiglio Ue dichiarando di «voler risolvere i problemi», dall’altro c’è Tajani stesso che contraddice senza accorgersene la Commissione europea.

È un governo al tempo stesso incendiario e pompiere, quello di Meloni. E questo agitarsi in modo inconsulto porta conseguenze di lungo termine a livello europeo. Alcune già si intravedono: la premier serra i ranghi e si appiglia ai punti fermi, dagli Stati Uniti alla destra europea. Questo slittamento a destra, e verso Washington, va di pari passo con l’opportunità persa di sfruttare gli screzi tra Francia e Germania per acquisire autorevolezza.

Oltre agli equilibri più ampi, c’è poi l’effetto sul dossier migratorio: alla fine gli attriti tra paesi europei si mitigheranno, mentre la linea comune europea verso i migranti finirà per essere sempre più respingente.

Gli appigli di Meloni

Se già la reputazione di Meloni era tutta da costruire – la premier crede di dover dimostrare a Bruxelles che «non siamo marziani» e all’alleanza atlantica che «siamo una nazione seria» – ora il governo è anche alle prese coi danni reputazionali: una nota trionfalistica diffusa da palazzo Chigi ha complicato i rapporti con Parigi, che ha preannunciato la settimana scorsa conseguenze nei rapporti bilaterali ampiamente intesi, non solo sul comparto migrazioni. Dunque la premier si è aggrappata a tutti i padri putativi che è riuscita a raggranellare.

La settimana scorsa, ha consolidato i rapporti con la famiglia popolare europea. Il dialogo tra Fratelli d’Italia e il presidente del Ppe, Manfred Weber, era già intenso e costante, ma la venuta di lui a Roma, i contatti con Raffaele Fitto, l’incontro con Giorgia Meloni, intercorsi in pieno “scandalo Parigi”, sono sintomo di intese irrobustite.

Weber e Meloni hanno parlato anche di migranti. Il leader dei popolari si è poi esposto in difesa del governo italiano, ed esibendo la stretta di mano con Tajani (al momento è Forza Italia, a essere nel Ppe) ha detto pubblicamente che «l’Italia non va lasciata sola, servono soluzioni europee basate su rigidi controlli alla frontiera».

Ed è questa la vera chiave strategica dell’esecutivo Meloni per tirarsi fuori dall’impasse: mettere d’accordo tutti (i governi) per tenere il più possibile lontani i migranti.

Su questo la sintonia col Ppe c’è, le destre votano all’unisono, e come al solito è il luogotenente europeo di Meloni, Fitto, a tessere sullo sfondo.

Tajani poi fa la sua parte: questo lunedì ha incontrato Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento, anche lei Ppe di famiglia, ma in ottimi rapporti coi conservatori di Meloni; e anche in lei il governo cerca sponda.

Infine i pesi massimi: il presidente della Repubblica in persona si è fatto carico di ricucire gli strappi con la Francia. «Sergio Mattarella ha avuto con Emmanuel Macron un colloquio telefonico, nel corso del quale entrambi hanno affermato la grande importanza della relazione tra i due paesi e hanno condiviso la necessità che vengano poste in atto condizioni di piena collaborazione in ogni settore sia in ambito bilaterale sia dell’Ue», recita la nota.

Martedì la premier Meloni incontra il presidente degli Stati Uniti al G20 di Bali, e questo completa l’azione di sponda.

La deriva illiberale

L’attitudine democristiana in stile Fitto, che tutto mitiga e ripara, è però solo una parte della storia.

Pur di evitare l’isolamento in Ue, il governo ricorre anche a mosse che ne rivelano la natura illiberale. Invece di lavorare con Parigi e Madrid per smuovere Berlino su prezzi, energia, debito, Roma ha ripescato il gruppo dei “5Med” ma senza Spagna. E così con il governo greco, noto per il modo non esattamente liberale col quale tratta sia i migranti sia l’opposizione interna, con Malta e Cipro, insomma coi “falchetti” del sud, ha imbastito un atto d’accusa contro le ong.

Questo lunedì la Commissione europea si è espressa chiaramente: «Non fa differenza chi si trovi lì, se una nave ong o di altro genere, l’obbligo di salvataggio è chiaro e inequivocabile». Ma l’Italia non va su questa strada. «Non è soccorso, è appuntamento in mezzo al mare», ha insistito sempre lunedì Tajani.

Al Consiglio Ue Esteri si è aggrappato ai paesi più affini - lo si è visto interloquire anche con Péter Szijjártó, il ministro più filoputiniano del governo Orbán – e poi ha introdotto il tema migranti in fondo al dibattito, in attesa di «incontri riservati» (che annuncia lui) e di un Consiglio Ue Affari interni dedicato (che Bruxelles conferma).

«Niente di concreto» è uscito, ha ammesso candidamente l’alto rappresentante Josep Borrell. Ma Tajani è convinto che qualcosa di politico si sia raggiunto: «Nessuno vuole esacerbare i toni, il punto comune è risolvere la questione migratoria». È la linea Meloni: più morbidi con gli altri governi, per evitare gaffe; ma tutti duri alla frontiera.

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