Ad ascoltare i dibattiti dei candidati alla cancelleria di Berlino si direbbe che fuori dalla Germania non c’è vita. Nella campagna elettorale, nonostante il ritiro dall’Afghanistan sia caduto nelle settimane calde della corsa, non si è quasi discusso di come la Germania si posizionerà nel mondo dopo l’addio di Angela Merkel.

Solo nel primo “triello” televisivo si è accennato a Kabul. In nessuno dei confronti si è parlato di Europa, Russia o Cina. I motivi sono tanti. Il primo è il fatto che la Germania fatica ancora, dopo la riunificazione, a trovare il suo posto: è troppo piccola per giocare alla pari con le potenze globali e troppo grande per fare la Svizzera. Inoltre, la repulsione per gli interventi militari dura dagli anni Sessanta, quando il confine tra le due Germanie era il fronte di altre potenze.

La linea Merkel

Negli ultimi sedici anni, Angela Merkel ha trasformato in linea politica questo rapporto conflittuale dei tedeschi con la loro posizione nel resto del mondo. Berlino ha giocato un ruolo importante in molte crisi, come quella dell’Ucraina, ma con scarso dibattito interno: erano i summit internazionali l’occasione in cui Merkel comunicava nuove scelte geopolitiche. Un contrasto fortissimo con i gesti eclatanti e le strategie di ampio respiro che hanno caratterizzato i mandati dei cancellieri degli anni Sessanta e Settanta, quando Willy Brandt cadeva in ginocchio davanti al monumento ai perseguitati del ghetto di Varsavia e inaugurava la Ostpolitik, la linea strategica che aveva l’obiettivo di disinnescare i rapporti con l’Unione Sovietica.

La firma di Merkel è stata il silenzio, mantenuto il più a lungo possibile. A volte però prendere posizione si è rivelato inevitabile, come per il caso di Aleksej Navalny, quando l’oppositore russo è arrivato a Berlino e l’ospedale Charité ha rilevato nel suo sangue tracce di veleno.

La discrezione di Merkel si spiega anche con la centralità degli interessi commerciali nella politica estera. Un principio che ha fatto da bussola anche per rapporti scomodi come l’ambiguità con cui Berlino ha negoziato con Russia e Cina, minacciate in superficie con sanzioni e parole di intransigenza mentre la diplomazia era impegnata a ottenere il miglior accordo per le aziende tedesche.

Questo approccio ha riguardato anche a questioni che riguardano la vita di tutti i giorni dei cittadini, come la presenza sul mercato tedesco delle aziende cinesi che lavorano con il 5G o l’intervento della Bundeswehr al fianco dei francesi in Mali. Tutto è passato sotto silenzio, quel che resta nelle trascrizioni delle sedute parlamentari sono soprattutto ordini del giorno e interrogazioni dei deputati d’opposizione.

Egemonia riluttante

L’obiettivo della politica del silenzio è stato negli anni molteplice. Ha rappresentato un modo per distinguersi dall’ansia presenzialista di altri capi di governo, ma ha progressivamente anche contribuito a creare nei tedeschi la convinzione che l’estero sia lontano dalla vita quotidiana e poco interessante. Insomma, la maggiore potenza europea, che in altri campi, come quello economico, non esita a far valere il proprio peso, continua a fare di tutto per evitare di porsi il problema se sia finalmente giunta l’ora di guidare il continente anche nel confronto con i partner mondiali.

Eppure, a parole le massime autorità del paese avevano espresso la necessità di dare una svolta alla politica estera tedesca.v L’allora presidente della Repubblica Joachim Gauck, nel 2017 aveva fatto capire che il tempo in cui era accettabile navigare a vista era finito. Merkel si era accodata con l’elezione di Donald Trump alla Casa bianca. In quell’occasione aveva detto con rara nettezza che «è ora che gli europei prendano in mano il loro destino» perché «i tempi in cui potevamo fidarci totalmente di altri sono passati da un pezzo». Ma Berlino non ha voluto mettersi alla guida dell’Unione neanche dopo questa presa di posizione.

Non è dato sapere se dopo il 26 settembre questa linea cambierà. La campagna elettorale ha preso le mosse dalla faticosa lotta contro il Covid-19, durante la quale i principali interlocutori della cancelliera sono stati molto più i capricciosi governatori dei Land che i partner europei. Come è avvenuto a quasi tutti i paesi colpiti, la Germania si è chiusa in sé stessa. Persino la frontiera franco-tedesca, blindatissima dagli accordi stretti tra Berlino e Parigi, è stata chiusa. Il governo e l’opinione pubblica hanno rivolto la propria attenzione agli scandali scoppiati quando bisognava procurarsi le mascherine a inizio 2020 e ai contrasti con i No-vax durante la campagna vaccinale.

Proposte e alibi

Finora, durante la corsa si è parlato di Ue, Nato e geopolitica sono apparsi temi rilevanti soltanto nel dibattito sulle alleanze con la Linke: una parte della sinistra estrema spinge ancora per la dissoluzione dell’Alleanza atlantica, un caposaldo incompatibile con i programmi di Verdi e Spd, i partiti che potrebbero più facilmente concludere una coalizione con questa formazione.

Anche nei programmi elettorali, esteri e Unione europea compaiono solo accompagnati da formule fumose e perifrasi ostiche. Una delle proposte più chiare è quella della Cdu, che mira a intervenire sulla struttura organizzativa della politica estera tedesca: secondo i commentatori, è proprio il processo decisionale a rendere le prese di posizione lente, poco chiare e ancora meno efficaci. Contemporaneamente, il labirinto in cui si disperdono le responsabilità è un ottimo alibi per tutti i coinvolti. Creare un consiglio ad hoc per individuare un punto di riferimento, come propone Armin Laschet, spazzerebbe via ogni possibile scusa. Ma per il momento, la proposta resta nascosta tra le pagine del programma conservatore, da dove difficilmente uscirà: è improbabile che nell’ultima settimana di campagna elettorale divampi un dibattito sulla politica estera in un paese in cui è passata sotto silenzio per sedici anni.

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