Dopo due settimane di combattimenti, la Cina ha rotto gli indugi annunciando, per bocca del ministro degli esteri, Wang Yi, che è pronta a sponsorizzare un negoziato, assieme alla comunità internazionale, per fermare la guerra, e che attraverso la Croce rossa manderà subito aiuti d’emergenza all’Ucraina devastata dall’invasione militare russa ordinata da Vladimir Putin.

Finora Pechino si è astenuta su entrambe le risoluzioni delle Nazioni unite di condanna dell’aggressione all’Ucraina (quella del Consiglio di sicurezza bloccata dal veto russo, e quella dell’Assemblea generale approvata con 141 “sì”); ha espresso la sua contrarietà alle sanzioni nei confronti di Mosca varate al di fuori dell’Onu, giudicate “unilaterali e illegali”; ma ha sottolineato l’importanza del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di cui Putin ha fatto strame.

La leadership del Partito comunista ha mantenuto un bilanciamento tra questi princìpi, inderogabili per una nazione nella quale un quarto del territorio è popolato da minoranze (uigure e tibetane), e la “partnership strategica onnicomprensiva per una Nuova era” sottoscritta assieme alla Russia.

Ora bisognerà capire come sarà accolta la disponibilità di Pechino a fare da broker. Lo scorso fine settimana l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, Joseph Borrell, ha dichiarato: «Noi non possiamo essere i mediatori, questo è chiaro, e non possono farlo nemmeno gli Stati uniti. Chi altro? Soltanto la Cina, ho fiducia in questa soluzione».

Nelle stesse ore il segretario di stato americano, Antony Blinken, parlava al telefono con Wang (non è noto da chi sia partita la chiamata) lamentando la mancata presa di posizione di Pechino contro l’attacco russo.

Washington sosterrà l’offerta di intervento diplomatico di Pechino? Senza il benestare degli americani sarà difficile muoversi nel cuore dell’Europa che lambisce i paesi della Nato per i cinesi, al momento impegnati nell’evacuazione di 6 mila connazionali (tra i quali centinaia di studenti) rimasti intrappolati in Ucraina in seguito all’assalto dei militari russi del quale - malgrado le accuse di fonti di intelligence americana - forse la leadership cinese non aveva contezza.

Diplomazia e via della Seta

A partire dal 1990, Pechino ha fornito un contributo sempre più significativo alle forze di pace dell’Onu impegnate in 30 paesi: circa 50 mila caschi blu cinesi (più di ogni altro membro permanente del Consiglio di sicurezza), in teatri ostici, dal Libano al Sud Sudan.

Dal 2013 - l’anno in cui Xi lanciò la nuova via della Seta (Bri) - la Cina ha iniziato a esporsi a vari livelli (in contesti multilaterali, con inviati speciali, ospitando delegazioni delle parti in causa) come negoziatrice in una serie di conflitti, tra cui quelli nel Myanmar, in Siria e Afghanistan, paesi strategici per la Bri, la rete di scambi e investimenti infrastrutturali che collega l’Asia all’Europa, alimentata dalle banche e dalle aziende di stato cinesi.

Nonostante l’agenda della leadership di Pechino quest’anno sarà assorbita quasi interamente dalla preparazione del XX congresso del Partito comunista, la Cina appare tutto sommato il mediatore “naturale” per fermare Putin.

I rapporti economico-commerciali bilaterali sempre più stretti hanno infatti accentuato la dipendenza di Mosca da Pechino, consegnando nelle mani di Xi e compagni una potente leva per costringere Putin a più miti consigli. E l’Ucraina è un paese amico, che Pechino vorrebbe trasformare nella porta d’accesso in Europa per la sua Bri, e dove, tra l’altro, ha affittato per 50 anni 100 mila ettari per coltivare cereali e allevare maiali destinati ai consumatori cinesi.

La posta in gioco

Pechino comunque ha in mente una mediazione che non intacchi la “partnership strategica onnicomprensiva” con Mosca, che negli ultimi anni si è fatta sempre più stretta, grazie a contratti decennali per l’importazione di carbone, gas e petrolio russo; alla promozione di un nuovo ordine globale “multilaterale” anti-Nato e anti-Usa che punta a rafforzare le rivendicazioni di Mosca in Europa e quelle di Pechino nel Pacifico; alla cooperazione militare in Asia centrale nell’ambito della Shanghai cooperation organization (Sco).

Wang ieri ha rimarcato che entrambe le nazioni «si oppongono alla guerra fredda e allo scontro ideologico» e che la situazione in Ucraina non avrebbe nulla a che fare con la questione di Taiwan, perché quest’ultima rappresenta «un affare puramente interno» per Pechino, che considera l’Isola una sua provincia, da “riunificare” alla madrepatria.

Se la Cina ha scoperto le sue carte, è chiaro che il successo di una sua eventuale mediazione tra russi e ucraini ne consacrerebbe a livello globale l’immagine di potenza “responsabile” e “pacifica”, contribuendo nello stesso tempo a farla uscire dall’isolamento che si è auto-imposta con le sue draconiane misure anti-Covid, ed eventualmente garantendo anche una via d’uscita a Putin. L’Occidente è pronto a ingoiare il boccone amaro?

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