Bisogna fare in fretta, più in fretta. È dall’inizio dell’anno che l’Unione europea intrattiene dialoghi con gli Stati Uniti, e svariati faccia a faccia con il segretario di Stato Antony Blinken, per discutere della exit americana dall’Afghanistan. Nel giro di pochi giorni i Talebani si sono ripresi il paese, migliaia di afghani cercano vie di fuga, e adesso non c’è più tempo da perdere. L’agenda europea si infittisce di incontri al vertice, ma non abbastanza. Ieri si sono riuniti i rappresentanti degli stati membri dell’Unione europea, oggi è il turno dei ministri degli Affari esteri, per discutere in videoconferenza della situazione afghana. Gli eurodeputati Pd chiedono al più presto anche un Consiglio europeo straordinario, oltre all’apertura di corridoi umanitari. Le rifugiate e i rifugiati afghani cercano vie di fuga e l’Unione europea non può sottrarsi all’obbligo di accoglienza; anche se c’è chi prova a farlo.

Vie di fuga

Josep Borrell è l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri. A lui spetta il compito non facile di mostrare al mondo un’Europa capace di parlare con una voce sola, in modo tempestivo e univoco; troppo spesso il compito fallisce, e lo stesso Borrell a febbraio è stato bersagliato di polemiche per l’atteggiamento troppo morbido (o a detta di alcuni, «umiliante») tenuto con la Russia in tema di diritti umani. Stavolta Borrell prova a esibire iniziativa a livello internazionale, e ieri ha divulgato un manifesto «per proteggere le vite e la dignità degli afghani». La dichiarazione comune dice che «visto il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza, chiediamo di consentire e facilitare la partenza sicura e ordinata dall’Afghanistan di coloro che desiderano abbandonare il paese». Nelle sole rappresentanze delle istituzioni Ue, lavoravano circa 600 afghani, per non parlare di tutti gli interpreti, giornalisti, attivisti, per i quali si sta mobilitando la società civile europea; ad esempio i media tedeschi, che si sono appellati ad Angela Merkel per garantire accoglienza ai loro colleghi afghani. Ma al di là di tutti coloro che lavoravano per e con i governi occidentali, ci sono migliaia e migliaia di afghane e afghani che cercano di sfuggire dalla presa dei talebani.

Intenti non comuni

Anche se Borrell vanta l’adesione di una quarantina di paesi extra Ue, va detto che tra questi ci sono gli stati federati di Micronesia mentre mancano all’appello giganti come Russia e Cina. Tra gli stessi stati membri dell’Unione, i firmatari sono 25; qualcuno nella lista manca, e per assenza spicca l’Ungheria. Si tratta solo dell’ultimo segnale di una più profonda divaricazione all’interno dell’Europa. A inizio luglio dall’Afghanistan era partita una nota scritta ai governi Ue per chiedere di sospendere i rimpatri forzati, ma solo Svezia e Finlandia hanno dato seguito alla richiesta, motivata dal degenerarsi delle condizioni di sicurezza. Anzi, per tutta risposta, a inizio agosto, l’8, sei stati membri – Austria, Danimarca, Grecia, Germania, Paesi Bassi e Belgio – hanno persino chiesto a Bruxelles di procedere al più presto con i rimpatri volontari o forzati. Soltanto la Corte europea dei diritti dell’uomo ha impedito a Vienna di procedere con un rimpatrio a inizio agosto. Questa pratica del resto è andata avanti per decenni: dal 2008 a oggi, circa la metà delle 600mila richieste di asilo provenienti dall’Afghanistan sono state rifiutate, in Ue, e più di 70mila persone (di cui 20mila donne) sono state rimpatriate. Lo stesso riconoscimento dello status di rifugiato finora cambiava in base al governo in cui si capitava: l’anno scorso, la Bulgaria ha dato asilo solo a uno su cento degli afghani che chiedevano protezione. L’Italia, a oltre nove su dieci.

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