Europei e statunitensi sono tornati a negoziare sui dazi: questo lunedì il negoziatore europeo Maroš Šefčovič, commissario al Commercio, ha ripreso a trattare al telefono con Howard Lutnick, suo omologo americano.

In apparenza sono tornati proprio dove li avevamo lasciati, congelati come il fotogramma di un video quando Trump ha spinto sul telecomando della minaccia di dazi al 50 per cento: prima che il presidente Usa lanciasse il suo affondo, venerdì, il commissario Ue stava proprio per sentire Washington così da tirare le fila di un rilevante scambio di documenti negoziali.

Ma i piedi presidenzial-trumpiani erano saltati sul dossier sparigliando le carte per qualche ora; fino a domenica, quando Ursula von der Leyen ha preso in mano il telefono e ha fatto il gesto di distendere la Casa Bianca e il suo inquilino. Che è tornato sui suoi passi: contrordine europei, niente dazi aggiuntivi al 50 per cento almeno fino al 9 luglio. «Venerdì è ormai il passato, ci focalizziamo sulle interlocuzioni che verranno dopo la buona telefonata tra i due presidenti», dicono da palazzo Berlaymont.

Questa è la strategia di von der Leyen dall’inizio: la perseveranza negoziale, costi quel che costi. E sta già costando parecchio: Bruxelles ha sospeso le prime contromisure contro dazi Usa che invece non sono stati sospesi (quel 25 per cento contro acciaio e alluminio che aveva indotto a prepararle resta) e non ha reagito all’imposizione del 10 per cento generalizzato, che ora Trump – non c’è da stupirsene – dà per assodato.

Spintoni trumpiani

Fino alla scorsa settimana gli stati membri non intendevano digerire la cosa senza colpo ferire, ma dopo l’uscita trumpiana di venerdì emergono in superficie i disallineamenti: a chi gli domanda se i dazi al 10 per cento siano un buon compromesso per l’Italia, il ministro Adolfo Urso risponde che «è quanto ha raggiunto la Gran Bretagna nel suo negoziato, una indicazione sulla via da percorrere». Pure Emmanuel Macron – che sul raggiungimento di un’intesa si dice fiducioso – usa parole che fanno pensare: ambisce a tenere i dazi «il più bassi possibile» (che non significa «zero dazi», come invece tuttora dichiara la Commissione sostenendo che l’ipotesi sia ancora sul tavolo).

Von der Leyen – garantiscono i portavoce – si coordina con i governi (Meloni inclusa) e lo ha fatto pure prima di telefonare a Trump. Ma non significa che esista un fronte coordinato pronto ad opporre resistenza alle pretese trumpiane: diversamente dalla Cina, che aveva alzato una muraglia contro gli attacchi trumpiani, l’Ue espone un fianco molle. Ed è impegnatissima ad assecondare almeno alcune delle richieste (pretese) di Washington. Il 9 luglio viene non a caso dopo il 24 giugno del summit Nato in cui si cristallizzerà l’aumento dei contributi di spesa europei.

Meloni in armi

Questo lunedì il commissario Ue alla Difesa Andrius Kubilius era in Italia ed è intervenuto anche su questo tema («il governo italiano ha dato il suo sì alla possibilità di deroghe per le spese militari e allo schema di prestiti, spero che troverà il modo migliore per aumentare le spese in difesa»); il 27 maggio si formalizza il via libera del Consiglio al braccio economico di ReArm, cioè Safe (prestiti).

Berlino si sta riorganizzando in vista dell’aumento delle spese in difesa, e tutto procede in parallelo – ma non in modo disgiunto – rispetto agli sviluppi sui dazi. Basta del resto osservare i resoconti delle telefonate tra presidenti: von der Leyen dichiara che «la telefonata è stata positiva, l’Ue e gli Usa hanno la relazione commerciale più stretta al mondo, l’Europa è pronta a far progredire i negoziati in modo decisivo e per raggiungere un buon accordo serve tempo fino al 9 luglio»; Trump dà una versione compatibile – «lei mi ha telefonato e mi ha chiesto una proroga, vuole andare avanti con negoziati seri, è stata una chiamata nice, positiva» – ma in quella stessa conversazione coi cronisti dice altre cose. Come questa: «Non mi interessa produrre calzini, magliette, ma roba che conta, intelligenza artificiale, computer, chip, equipaggiamenti militari, tanks, carrarmati».

La trattativa sui dazi riguarda per Trump anche condizioni favorevoli per i colossi tech Usa, l’imposizione di un divorzio il più profondo possibile tra Ue e Cina e un aumento delle spese militari che avvantaggi il più corposamente possibile le tasche statunitensi.

«Abbiamo concordato che l’Europa deve investire di più nella sua difesa e che l’industria Usa non dev’essere marginalizzata nel riarmo europeo», aveva detto a inizio mese il segretario di stato Usa Marco Rubio con al suo fianco il ministro della Difesa francese: pure la Francia, sulla carta la più spinta sulla «preferenza europea», ha messo in conto che non dobbiamo solo spendere di più ma spendere anche verso gli Usa. Una linea che attraversa anche i provvedimenti sul riarmo Ue.

I governi formalizzeranno questo martedì in Consiglio il loro accordo su Safe (i 150 miliardi di prestiti annunciati da von der Leyen con ReArm) e l’esecutivo Meloni rivendica un ruolo «essenziale» nel trovare un consenso sul dossier, sottolineando che nell’accordo raggiunto sono state evitate ulteriori restrizioni alla partecipazione di subappaltatori extra Ue e che va lasciata aperta la porta per Washington.

Ancora questo lunedì, il meloniano ministro Lollobrigida ha sostenuto che l’Italia «coadiuvi» Bruxelles nelle relazioni con Washington. Anche se, a dirla tutta, interrogata dai cronisti sulle voci italiane di un presunto vertice romano entro giugno con Usa e Ue, la portavoce di von der Leyen ha detto di non saperne nulla.

© Riproduzione riservata