Chi è la donna forte della sinistra tedesca? Sarebbe ovviamente allettante dire Annalena Baerbock, l’astro nascente del partito verde. Ma la candidata cancelliera ha ancora molta strada di fronte a sé prima di intaccare il primato incontrastato di Sahra Wagenknecht, la stella rossa che da più di dieci anni brilla nei cieli della Linke, la sinistra radicale. Non fosse per le ottime chance del partito di Baerbock nella corsa alla cancelleria, la sinistra tedesca starebbe infatti ancora assorbita nell’immensa polemica scatenata dall’ultimo libro di Wagenknecht, I Presuntuosi, pubblicato appena una settimana prima dell’annuncio di Baerbock.

La sinistra liberale ha comunque ottimi motivi per continuare a occuparsi del caso Wagenknecht, e non solo in vista di una possibile coalizione Verdi-Spd-Linke. Wagenknecht è tutto ciò che Baerbock non può o non vuole essere. È popolare nell’elettorato (nel novembre 2019 ha eclissato Angela Merkel negli indici di gradimento registrati dal magazine Focus). È una capace oratrice in grado di lanciare caustiche polemiche senza uscirne politicamente danneggiata. Viene dalla Germania est, è figlia di un immigrato iraniano e afferma con fierezza la propria identità di ex cittadina della Ddr.

Il ritratto

A Wagenknecht però non piacerebbe l’uso del termine “identità”, specialmente per descriverla. Non c’è niente che la ripugni di più di quella che ha più volte definito una «deriva identitaria» della sinistra, un anatema contrario a tutti principi cari alla sua concezione di emancipazione. Lei, materialista storica laureata con una tesi su Marx e Hegel, ha sempre posto la diseguaglianza sociale al centro del proprio pensiero, insistendo che la sinistra debba concentrarsi esclusivamente sulla lotta per la ridistribuzione. La dimensione culturale delle ineguaglianze non sarebbe altro che  uno specchio per le allodole del Capitale. Le quote rosa? Un contentino per distrarre dalla lotta dura per innalzare i salari minimi. Il rafforzamento del pilastro sociale dell’Unione europea? Un trasferimento di potere a una commissione neoliberale.

Posizioni che, coadiuvate da una pungente retorica, ha inevitabilmente catapultato Wagenknecht nel mezzo delle culture war che da qualche anno a questa parte serpeggiano nel dibattito politico tedesco. Matrimonio gay, immigrazione, linguaggio neutro: non c’è una discussione in cui Wagenknecht non si sia espressa in termini quantomeno controversi, attirandosi le ire dei propri compagni e, a volte, il plauso della destra.

La passione di Wagenknecht per queste attenzioni è palese. Molto del suo personaggio politico è costruito proprio sulla propria immagine di bastian contrario della sinistra, sull’essere la più attaccata nei talk show. Si può dire che si eserciti appositamente fin dal 1989, quando entra nella Sed, il partito di regime della Ddr che proprio in quei mesi era già evidentemente sul direttissimo per la il binario morto della Storia. Pochi anni dopo contribuisce alla fondazione della Linke, il nuovo partito di sinistra radicale immediatamente sospettato di proteggere gli ultimi resti dell’antiliberalità della Germania est. Lei stessa viene posta sotto osservazione dai servizi segreti per sospette attività anticostituzionali, un traguardo che rivendica come dimostrazione di quanto sia un personaggio scomodo per il pensiero dominante.

Oggi, l’unica sorveglianza che Wagenknecht deve forse temere è quella dei suoi compagni di partito. La Linke ha infatti un rapporto complicato con la sua ex leader, la cui popolarità è inversamente proporzionale alla propria pazienza con chi cerchi di costruire coalizioni solidali fra gruppi sociali da lei definite “identitarie”. Come scrive nel suo ultimo libro: «La semplice verità è che non c’è nessun interesse comune tra i discendenti degli immigrati dai paesi musulmani o tra gli omosessuali o anche tra le donne che vada oltre l'uguaglianza legale. Il camionista omosessuale che percorre centinaia di chilometri di autostrada ogni giorno e ha paura che i concorrenti dell’Europa dell’est gli costeranno presto il lavoro per sempre vive in un mondo completamente diverso da quelli dello studente di politica omosessuale i cui genitori benestanti gli stanno finanziando uno stage a Bruxelles».

Già, l’Europa dell’est. È infatti proprio la questione migratoria che ha fatto la fortuna di Wagenknecht. Quando nell’estate del 2015 la Germania si ritrovò ad accogliere centinaia di migliaia di profughi dalla Siria, gran parte della Linke si schierò a favore di una politica di accoglienza generosa e aperta. La posizione non era però estesa a Wagenknecht, che da leader del gruppo parlamentare al Bundestag si ritrovò improvvisamente in minoranza nel proprio stesso partito. Dove i suoi compagni vedevano rifugiati da aiutare, Wagenknecht vedeva infatti un immenso esercito industriale di riserva che avrebbe messo a rischio lo stato sociale, per la Linke già molto debole ed essenzialmente liberista.

È proprio in quella fase che Wagenknecht decide di scommettere tutto il capitale politico accumulato dentro e fuori al partito. La Linke, che da anni oscilla attorno al 7-9 per cento, è uno stagno troppo piccolo per la leader, che intanto si è anche sposata il grande antagonista del Spd schröderiana Oskar Lafontaine. Insieme, i due lanciano Aufstehen (“alzarsi”, ndr), una piattaforma movimentista separata dalla Linke e a cui possono anche aderire altri simpatizzanti ostili al partito dell’ex Ddr. L’operazione è un fiasco, anche a causa di dichiarazioni esplicitamente razziste da parte di un altro co-fondatore. Con il montare delle opposizioni interne, nel 2019 Wagenknecht si ritira dai ruoli di leadership nel partito, complice la trasformazione dell’elettorato della Linke: con la comparsa dell’Afd nel ex est, il partito punta sempre più alle classi educate e benestanti dell’ovest. Proprio i liberal che Wagenknecht vorrebbe espellere dal consesso delle sinistre.

Ciò non ha però significato il tramonto del sol dell’avvenir. Con l’uscita del suo ultimo libro, Wagenknecht sembra infatti essersi reinventata, o se non altro di aver aggiornato la sua battaglia per riportare la sinistra alle sue radici materialiste. Ora che la linea del fuoco culturale si trova sul fronte dei diritti personali e del politicamente corretto, Wagenknecht si è lanciata in un gran tour delle cattedrali politiche tedesche – i talk show della televisione pubblica, le prime pagine dei feuilleton borghesi da lei tanto avversati e, naturalmente, le diatribe social. Va detto che la dottoressa in economia produce ormai argomentazioni molto meno colte rispetto al 2015 – nella sua intervista alla testata economica Handelsblatt ha proposto un’analisi socioeconomica più grezza che in passato: «Quando la filiale Knorr della Unilever rinomina la sua “salsa zingara”, la sinistra del lifestyle è entusiasta. Il fatto che i lavoratori che producono quella salsa stiano solo lottando senza successo contro un salario schifoso è ormai meno interessante». Le risposte, come da calcolo politico, non si sono fatte aspettare. Luca Pantisano, candidato per la Linke al Bundestag, è stato molto esplicito con il quotidiano taz: «Accusa le persone che fanno campagna per una società diversa, climatica e socialmente giusta di prendere le distanze dalla cosiddetta classe operaia. Ma quando è stata l’ultima volta che Sahra Wagenknecht si è trovata davanti al cancello di una fabbrica o ha visto una fabbrica dall’interno?»

Ma per una personalità che ha costruito la propria identità politica proprio sulla polemica a sinistra questi attacchi sono oro. Il 10 aprile, Wagenknecht ha ottenuto la nomina a capolista per la Linke in Nord Reno-Vestfalia. La lunga marcia continua.

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