È il tempo, sempre lui, il vero signore della politica. Sprecato o messo a frutto, dimenticato oppure ricordato a sproposito o, ancora, annotato con precisione sulle agende dei nostri propositi, il tempo dà un senso al maturare delle vicende pubbliche. E a un certo punto, sempre lui, il, tempo, decreta successi e fallimenti e fa capire cosa resterà, appena più avanti, delle cose su cui ci accapigliamo.

Bene, se questo è il parametro, comincia a essere matura la possibilità di giudicare costi e benefici, o se vogliamo ascesa e declino, di quella parola d’ordine – civilizzare i barbari – con cui i detentori dell’antico sapere politico hanno accompagnato l’ascesa del Movimento 5 stelle, e specularmente il sorpasso di Matteo Salvini ai danni di Silvio Berlusconi. In una parola, l’esito delle elezioni di quattro anni fa.

Lasciamo da parte il caso della Lega, partito onusto di storia e affidato un po’ alle cure del leader che più aveva provveduto ad assicurarne le fortune e il credito (e cioè Berlusconi), e un po’ alle remore e prudenze dei suoi governatori, sindaci, amministratori – e cioè quei custodi del territorio che per loro natura tendono al pratico e diffidano degli eccessi di immaginazione politica.

Operazione Pigmalione

È toccato piuttosto ai Cinque stelle di subire quella sorta di corteggiamento e ammaestramento che avrebbe dovuto guidarli nei meandri del potere. Pagando il dovuto omaggio alla forza dei numeri che gli elettori avevano appena consegnato ai discepoli di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. E però contemporaneamente riversando su di loro tutto quel sapiente know how politico di cui chiunque avesse trascorso anche solo un po’ di tempo nei palazzi nobiliari di una volta si poteva considerare almeno un po’ depositario. Una sorta di scambio virtuoso tra le risorse della tradizione e il vigore della protesta.

Per qualche mese si è così dispiegata, chiamiamola così, una sorta di operazione Pigmalione. Si è confidato cioè che i nuovi arrivati – i barbari – potessero piano piano, grado a grado, un passo alla volta incamminarsi lungo i percorsi che la nostra più antica tradizione – la civiltà – considerava pressoché obbligati.

Dunque, si lasciassero pure andare alla loro retorica, alle loro narrazioni così sconclusionate. D’accordo, raccontassero pure che avevano «abolito la povertà». D’accordo, inneggiassero quanto volevano al prodigio della riduzione del numero dei parlamentari. D’accordo, facessero il tifo per il reddito di cittadinanza e contro le opere pubbliche. Al limite (molto al limite) potevano perfino fare i gradassi con quell’Europa che si apprestava a fare le pulci ai loro conti farlocchi. Tutto questo, e magari altro ancora.

Tanto poi il principio di realtà avrebbe rimesso le cose a posto. E dunque, i vincoli di bilancio avrebbero stretto all’angolo le loro fantasie, il mondo che conta avrebbe fatto pesare i suoi equilibri e la logica del realismo avrebbe tolto di mezzo le fantasie più pericolose. Infine ci saremmo stati “noi”, cultori della vecchia civiltà, a guidare la loro evoluzione.

L’operazione sembrava avesse senso. Tant’è che il M5s nel volgere di qualche mese si è acconciato a governare con l’odiato Pd, e poi perfino a camminare sul tappeto rosso in compagnia del tecnocrate Mario Draghi (assieme a Berlusconi, peraltro).

Il ritorno dell’asse gialloverde

Nel frattempo i grillini avrebbero anche gioiosamente rieletto Sergio Mattarella, poi scoperto il gusto inedito di dividersi in correnti, poi declinato i codici del professionismo politico di una volta (con tanto di annessa scuola), poi aperto a sé stessi le porte all’idea del terzo mandato, e poi ancora fatta propria la suggestione di una legge elettorale proporzionale. Insomma, una sequela di aggiornamenti e trasformazioni che sembravano tutti alludere, nel bene e nel male, al proposito di fare del loro un partito come gli altri. Sia pure senza accettare quell’odiosa definizione di “partito” e continuando a cullarsi nella fascinosa suggestione della propria irriducibile diversità da tutti – alleati o avversari che fossero.

Così, la ricerca di somiglianze e affinità, talvolta rivendicate con un certo orgoglio e altre volte invece passate sotto traccia ha fatto pensare che quel processo di omologazione di cui ogni democrazia solitamente si nutre fosse andato abbastanza avanti da farci scavalcare con un balzo disinvolto le ombre degli inizi.

E invece, non appena con la crisi ucraina s’è aperto un varco, abbiamo visto subito riaffiorare come per incanto quello che avevamo pensato di avere seppellito: per intenderci, quell’asse gialloverde di cui son piene le cronache degli ultimi giorni. Per giunta un asse impegnato a riproporsi ora sul terreno più cruciale e più delicato, quella della politica internazionale. Laddove cioè non si potrebbe, né si dovrebbe scantonare dai sacri canoni.

Come a dire che tutta la fatica che Rex Harrison aveva speso a insegnare a Audrey Hepburn le buone maniere era stata pura immaginazione. Destinata a venire sacrificata non appena possibile sull’altare delle controverse, irriducibili identità di cui ciascuno era portatore fin dagli esordi.

Così ora ci troviamo a fare i conti con la sensazione che forse tutto quel reciproco parlarsi, avvicinarsi, coltivare affinità in nome del superiore interesse del paese fosse solo un equivoco. O peggio, una furbizia.

Resta il dubbio che l’equivoco fosse tale fin dagli inizi, appunto. Ma quel dubbio a sua volta andrebbe legato più strettamente ai tempi e alla loro troppo furba brevità. Infatti, la pretesa che il M5s potesse vestire panni istituzionali relegando in un luogo remoto la retorica del “vaffa”, della scatoletta di tonno, dell’uno vale uno, della lotta alla casta, del popolo contro l’élite, e via sentenziando e demonizzando era, appunto, una strampalata pretesa. Di cui si sarebbe forse – forse – potuti venire a capo dedicando tempo e fatica all’impresa. Ma non, mai, di punto in bianco, nel giro di appena qualche mese, saltando tutti quei passaggi che la pazienza della politica impone sempre ai suoi adepti.

Processo di accumulazione

Se si fosse trattato solo di fare un governo o un altro per svernare la legislatura, quello sì che si poteva fare. Ma se invece si pensava davvero di trovare un punto di incontro tra la “novità” del populismo e la tradizione politica italiana, allora ci sarebbe voluto molto altro: più fatica, più profondità, una più cospicua rivisitazione di sé stessi. E più tempo, soprattutto.

Invece, s’è pensato di fare tutto in quattro e quattr’otto, inseguendo un calendario che imponeva le sue priorità. Addomesticare gli animal spirits perché c’era da fare un governo, e poi un altro, con una maggioranza ancora più larga. Dar l’idea, da una parte e dall’altra, che un qualche reciproco avvicinamento avrebbe fatto guadagnare miracolosamente spazi di manovra agli uni e agli altri. E cercare superficialmente qualche punto di contatto qua e là compensando con la larghezza del campo la superficialità della semina.

La metabolizzazione politica e istituzionale del M5s avrebbe richiesto passaggi più vissuti e sofferti di quelli che sono serviti ad attraversare il guado delle emergenze di questi anni. Si poteva pensare da una parte di trasmettere saperi, costumi, ragioni, ma solo a patto di rielaborarli. E si poteva dall’altra parte far mostra di voler davvero cogliere quella occasione per rivedere qualcosa di sé, ma senza pretendere di trovare una comoda scorciatoia per conciliare d’un tratto il furore delle origini con la prudenza dell’approdo.

Insomma, si sarebbe dovuto tener conto del fatto che ogni progresso politico si nutre sempre di accumulazione e non di improvvisazione, di pazienza più che di estro, di rammendi minimamente accurati. E dunque che colmare quella distanza, ammesso che davvero fosse stato possibile, non doveva certo avvenire in quattro e quattr’otto. Semmai richiedeva agli uni e agli altri una revisione, o almeno un ripensamento profondo delle proprie ragioni. E magari anche una disponibilità a chiedersi se qualcuna di quelle ragioni non fosse meritevole d’essere davvero rivista da cima a fondo. Cosa che, in tutta evidenza, non è avvenuta.

Achille e la tartaruga

In altre parole, si sarebbe dovuto fare un lungo giro. Lungo e magari anche un po’ tortuoso, fino a cercare un “altrove” in cui le ragioni del populismo e quelle del “sistema” potessero trovare qualche punto di incontro. E invece ci si è lasciati guidare dal calendario delle emergenze e delle reciproche necessità. Ma era piuttosto ovvio che una volta stabilito di seguire la rotta più breve e più veloce non si sarebbe poi fatta molta strada.

Così, si può dire che non siamo migliorati molto, né “noi” né loro. Il sistema non ha tratto alcun giovamento dalla sfida a cui è stato sottoposto. E il mondo grillino non è stato indotto a rivedere nessuno dei miti delle sue origini. Si è limitato a tenere pudicamente nascosta quella parte di mitologia che al momento sembrava in più stridente contrasto con i doveri e le convenienze di questo o quel passaggio. A “noi” è rimasta l’illusione che il diavolo fosse meno brutto di come noi stessi lo avevamo dipinto. A loro è rimasta l’illusione che diavoli e acquasantiere potessero stare insieme e mescolarsi con una certa disinvoltura.

Verrebbe da dire che proprio lungo questa strada abbiamo perso tempo. E che lo abbiamo perso appunto perché eravamo convinti che si dovesse fare tutto molto in fretta. Con il che si dimostra, una volta di più, che quando si corre troppo diventa paradossalmente più facile non arrivare mai. Cosa che si sapeva fin da quando Achille e la tartaruga si sono misurati, ed è finita come sappiamo.

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