Non è una storia con un lieto fine, quella dell’anno 2022 per la sinistra italiana e  per il suo principale partito, il Pd. Anzi, quello che si chiude per molti versi è stato un annus horribilis, iniziato con la speranza di diventare il primo partito italiano e finito con il disastro del caso Qatar. La reputazione di questa parte politica ne esce piegata dalla rete di presunte corruzioni che emergono dall’indagine di Bruxelles, nonostante le eventuali responsabilità penali siano in capo a una manciata di persone e di queste poche – almeno fin qui –  siano riconducibili al partito di Enrico Letta.

Riprendiamo il film dall’inizio. Ripercorriamo gli ultimi dodici mesi in dieci date cruciali, segnate in nero nel calendario della sinistra, quella parlamentare: dalla mancata elezione di Draghi al Colle alle sue dimissioni, dalla scissione di Luigi Di Maio alla rottura con i Cinque stelle, dalla sconfitta del 25 settembre alle dimissioni di Letta al voto dell’assemblea con cui viene varato il dispositivo del congresso più pazzo, e pericoloso, della storia di quel partito. Il lieto fine non c’è, potrebbe essere anche solo la certezza di andare avanti.

11 gennaio, addio a David Sassoli

La scomparsa del presidente del parlamento europeo e di uno degli uomini più autorevoli del Pd apre un vuoto che gli stessi dirigenti non realizzano subito. La sua camera ardente, in Campidoglio, è un bagno di popolo. I suoi funerali, alla basilica di Santa Maria degli Angeli di Roma, sono  celebrati dal cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna (a maggio diventerà presidente della Conferenza Episcopale), che di David Maria è amico dai tempi del liceo.

È un funerale di stato, ma anche il primo funerale di stato europeo: oltre al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del consiglio Mario Draghi, ci sono la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la vicepresidente dell’europarlamento Roberta Metsola (l’antiabortista maltese del Ppe che sarà eletta al posto di Sassoli).

Il Pd celebra le grandi battaglie del dirigente scomparso a favore dell’accoglienza, per un’Europa dei cittadini. Per una riflessione sui debiti dei governi contratti per l’emergenza; posizioni, specie quest’ultima, troppo progressiste per il suo partito, anche se è guidato da Nicola Zingaretti, che infatti l’ha accolta con irritazione. Sassoli ha tenuto aperto il parlamento europeo in piena pandemia ed è stato un riferimento per le istituzioni di Bruxelles finché non è stata imboccata la strada del Next Generation Eu: «Una democrazia che arriva in ritardo è una democrazia che non si fa amare», sono sue parole.

29 gennaio: Mattarella ri-presidente

È bis, per la seconda volta nella storia repubblicana. Ed è un plebiscito: Sergio Mattarella viene rieletto con 759 voti e un lunghissimo applauso del parlamento. Un pugno di grandi elettori del Pd lo ha votato sin dall’inizio, il 24 gennaio, e chiama dopo chiama ha convinto i colleghi. Mattarella viene eletto dopo cinque giorni durante i quali succede di tutto.

Per il Colle Enrico Letta scommette sul premier Mario Draghi: ma i parlamentari temono che il suo passaggio da palazzo Chigi al Quirinale faccia saltare la legislatura. Matteo Salvini punta al primo presidente di destra: al quinto scrutinio lancia la presidente del senato Maria Elisabetta Casellati. Che però si schianta: le mancano sessanta voti di destra. Poi proverà a giocare di sponda con Giuseppe Conte sul nome di Elisabetta Belloni, direttrice dei servizi segreti. 

Il mattino di sabato 29 gennaio alle 8 del mattino Letta riunisce i grandi elettori Pd: «Assecondare la saggezza del parlamento è democrazia». Per Mattarella alla prima chiama erano arrivati 16 voti, 39 alla seconda, 125 alla terza, 166 alla quarta, 46 alla quinta (i giallorossi non votano, dunque sono voti della destra), 336 alla sesta, 387 alla settima.

Il centrodestra implode. Il candidato di Fratelli d’Italia, Carlo Nordio, ottiene 90 voti, 30 in più del numero dei grandi elettori di Fdi. Salvini è nella bufera per la pasticciatissima gestione della trattativa sul Colle. In Forza Italia è un tutti contro tutti. Giorgia Meloni archivia la coalizione: «Bisogna rifondare il centrodestra daccapo per rispetto delle persone che vogliono cambiare, bisogna ripartire da capo e Fdi si assume questa responsabilità». In casa Cinque Stelle tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio volano stracci. Il Pd è il vincitore morale. 

Ma il più deluso di tutti è Mario Draghi. Il parlamento non lo ha voluto eleggere. Un avviso: inizia l’ultimo anno della legislatura, ogni partito farà la sua campagna elettorale a colpi di distinguo. Per il premier e il governo tutto si complica.

24 febbraio: la guerra di Putin

All’alba del 24 febbraio Putin annuncia una «operazione militare speciale» nell’Ucraina orientale. Le forze di terra russe entrano nel paese. Inizia la guerra di invasione russa contro l’Ucraina. Il presidente Zelenskyj annuncia la mobilitazione generale. Inizia l’eroica resistenza ucraina. 

Quello stesso giorno a Roma, nel pomeriggio, Letta convoca un sit in sotto l’ambasciata russa, a fianco della comunità ucraina. Chiede di «strangolare l’economia della Russia», e da subito che l’Italia si schieri al fianco di Kiev, anche con aiuti militari. Il primo marzo tutta la maggioranza vota per l’invio delle armi all’Ucraini.

Il 5 marzo però scende in piazza un ampio schieramento pacifista che dice no alla guerra ma anche no agli aiuti militari. I sondaggi dicono che gli italiani sono più preoccupati per l’aumento del prezzo dell’energia che della sorte dell’Ucraina. ù

Da qui in avanti Conte fiuta l’aria e si allontana sempre più dall’alleato dem, anche se nel frattempo il governo di unità nazionale invia gli armamenti. La rottura fra Pd e pacifisti, con Conte ormai collocato fra questi ultimi, culmina nella manifestazione per la pace del 5 novembre. Letta viene fischiato. 

Il 6 ottobre, nel corso di una dolorosa analisi della sconfitta elettorale in una direzione del Pd, Letta ha ammesso che il suo partito ha cominciato a perdere voti proprio in quel momento, all’inizio della guerra. «Abbiamo pagato un costo elettorale. Ma siamo stati dalla parte giusta della storia», rivendica con orgoglio. Da lì però è partita «l’instabilità che», alle elezioni del 25 settembre «ha fatto vincere la destra». 

21 giugno, la scissione di Di Maio

Il ministro degli esteri lascia i Cinque stelle e fonda un nuovo gruppo parlamentare, Insieme per il futuro (Ipf), con un pugno di dissidenti: «Bisogna scegliere da che parte stare della storia. Alcuni dirigenti hanno rischiato di indebolire l’Italia». La conseguenza è che M5s non è più il primo gruppo della maggioranza, lascia il passo alla Lega.

 La scissione è anticipata il 16 giugno con un affondo di Di Maio contro Conte. In quelle ore Draghi è a Kiev da Zelensky, con Macron e Scholz. I Cinque stelle, sempre più insofferenti della linea “troppo” filoatlantica di Draghi, progettano una mozione di dissenso. Il ministro degli Esteri non può stare in un partito che non sostiene lo sforzo militare della Nato. 

Palazzo Chigi asseconda, anzi incoraggia la scissione. E anche dal Colle a Di Maio arrivano segnali sono positivi. La prima vera rottura fra Draghi e Conte arriva qui: e il presidente M5s accusa anche Letta di aver sostenuto Di Maio, ormai uomo Nato, per fare di lui il leader di un nuovo partito che prosciughi il consenso grillino. L’operazione non riuscirà, alle elezioni del 25 settembre Di Maio non sarà rieletto.

20 luglio, Draghi e l’inceneritore

Dopo 17 mesi, il governo di unità nazionale non esiste più. Le «dimissioni irrevocabili» di Draghi arrivano all’indomani della mancata fiducia al senato, il 20 luglio. Lega e Forza Italia non hanno votato, anche se non hanno avuto il coraggio di votare contro. 

Ma la crisi è iniziata settimane prima. Il 6 luglio Conte, sempre più in dissenso dalla linea Draghi, ha consegnato al premier un documento con nove punti programmatici per continuare a sostenere il governo. Il 14 il M5s non vota la fiducia sul Dl Aiuti. Draghi sale al Quirinale e rassegna le dimissioni, Mattarella le respinge e lo rinvia in parlamento.

Il premier spiega al Colle che non guiderà un governo senza i Cinque Stelle. La Lega invece gli chiede un bis e un rimpasto: fuori M5s, dentro più ministri leghisti. La mattina del 20 luglio Draghi parla al Senato. Chiede ai partiti della maggioranza se sono pronti a confermare il patto di governo: «Siete pronti a riscriverlo?».

No. Salvini ha capito che Conte non voterà la fiducia. All’ora di pranzo i vertici della destra di governo si riuniscono sull’Appia, nella villa di Silvio Berlusconi. Lì l’anziano leader viene circondato da un cordone di sanità: Draghi prova a chiamarlo, non glielo passano. Alla fine l’ex cavalier dice sì a Salvini: dall’opposizione Giorgia Meloni si sta rafforzando troppo. Il piano è: o un Draghi bis a trazione destra, o il voto. Alle 17 Draghi replica in Aula. Non concede niente né alla Lega né ai Cinque stelle. La risoluzione Casini («Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio, le approva») raccoglie 95 sì e 38 no. La sfiducia è sostanziale. Alle otto di sera il governo Draghi di fatto non c’è più.

Per capire bene dove si è  inclinato il piano su cui il governo Draghi è scivolato bisogna tornare indietro. A marzo, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, Conte comincia la sua conversione pacifista. Il 21 aprile, Natale di Roma, il sindaco Roberto Gualtieri annuncia che nell’imminente decreto Aiuti il governo gli darà i poteri da commissario al Giubileo che gli consentiranno di far costruire un termovalorizzatore nella Capitale. È un dito nell’occhio ai grillini, i cui ministri non votano il Dl. Dopo il primo turno delle comunali, siamo a metà giugno, M5s si ritrova con i consensi a picco. Il Pd è il primo partito d’Italia.

Il malumore grillino straborda sui media anche prima dei ballottaggi. Le primarie di coalizione fra Pd e M5s in Sicilia si trascinano in forse. Si celebrano il 23 luglio, vince la candidata dem Caterina Chinnici, ma poco prima del voto regionale i grillini rompono l’alleanza. La destra intanto si è spaccata e il candidato Renato Schifani può essere battuto. Ma da subito il ragionamento di Conte è: meglio perdere ma riguadagnare voti. Lo stesso che varrà per le imminenti elezioni politiche anticipate. 

26 luglio fine dei giallorossi

Letta convoca la direzione del Pd e definisce le tre forze che non hanno votato la fiducia a Draghi come «il trio degli irresponsabili». Il fatto è che delle tre, una è alleata: M5s. Con loro «nessuno accordo». Letta è convinto, non è chiaro sulla base di quali dati, che il consenso premierà il Pd in quanto ultimo giapponese di Draghi.

È stato Conte a mettere in conto la frattura dell’alleanza con il Pd, quando ha deciso di non votare la fiducia a Draghi, ma incredibilmente Letta, davanti alla pubblica opinione e al suo partito, si carica sulle spalle quella rottura. Ora i “riformisti” guardano con entusiasmo verso  Carla Calenda. L’ala sinistra, che da sempre lavora per l’alleanza giallorossa, è ammutolita. Il giorno dopo la crisi il senatore Luigi Zanda suggerisce: «Nessuna coalizione con il M5s ma solo un’alleanza elettorale». Sa che la rottura definitiva terremoterebbe i risultati del Pd, dalle politiche alle future regionali. Letta è persino irritato dal consiglio.

Per non correre solo e restare fuori partita, deve provare a stringere patti con  Calenda e Più Europa (in questo momento Matteo Renzi balla solo) e con i rossoverdi: «Le alleanze saranno solo elettorali», annuncia, «Questa legge non postula coalizioni con un simbolo. Ci dobbiamo provare».

Ma il tempo è una clava: entro un mese bisogna consegnare al Viminale le liste e le alleanze. Il 2 agosto Letta e Calenda annunciano l’intesa per costruire «una proposta vincente di governo».

Calenda sa che Letta vuole stringere un accordo elettorale anche con Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che non hanno mai votato la fiducia a Draghi, e con Di Maio, ma gli va bene: «L’accordo è fra Pd e Azione, dopodiché il Pd ha dei suoi alleati, legittimissimi, sono fatti loro». Ci ripenserà.

Dopo che il Pd annuncia l’accordo con i rossoverdi, Calenda annuncia la rottura con il Pd. Finirà in lista con Renzi, al cui partito – fin lì solitario e basso nei sondaggi – garantisce l’esistenza.

25 settembre: elezioni anticipate

Le politiche anticipate del 25 settembre scattano la vera foto all’Italia politica, una foto che smentisce la rappresentazione dei tre governi della legislatura (gialloverde, giallorosso, Draghi). Fratelli d’Italia, guidato da Meloni, è al 26 per cento. Per la prima volta nella storia repubblicana il partito postfascista è maggioritario. Per la prima volta in Italia premier sarà una donna. La coalizione di destra-centro prende  il 44 per cento. Lega e Forza Italia si attestano poco sopra all’8 per cento. Il Pd è poco sopra il 18, con gli alleati non va oltre il 26. Quello del partito di Letta è un risultato pessimo, in linea con quello che lui stesso aveva bollato come la disfatta: il risultato del Pd di Renzi nel 2018. È il secondo partito del paese, ma il segretario ha alzato troppo le attese e finisce per essere percepito come il grande sconfitto.

Il M5s di Conte prende il 15 per cento, è un tonfo rispetto al 2018, ma il movimento era dato per morto e invece gode di buona salute. Il Terzo polo terzo non è, ma arriva all’8 per cento. Affluenza al minimo storico: il 63 per cento. 

26 settembre: le mezze dimissioni di Letta

Letta si presenta da solo davanti ai cronisti: «Gli italiani e le italiane hanno fatto una scelta chiara e netta, hanno scelto la destra». Ora, e solo ora, accusa M5s di non aver voluto l’alleanza con M5s: «Meloni a Palazzo Chigi è figlio della scelta di Conte di far cadere Draghi». Ma si assume la responsabilità della sconfitta: «Sono tornato a marzo dello scorso anno con l’obiettivo di tenere unito il Pd dalla prospettiva di disgregazione. L’altro obiettivo era preparare una legislatura democratica e progressista. Il primo obiettivo è raggiunto. Evidentemente non ho raggiunto il secondo, perché questa sarà la legislatura più a destra della storia d’Italia».

Annuncia che non si ricandiderà ma non si dimette subito: «In spirito di servizio assicurerò la guida del partito fino al congresso». Un congresso anticipato rispetto a marzo, la scadenza naturale.

Neanche un mese e Conte gli dà un’altra sportellata. Per demolire definitivamente l’alleanza giallorossa, annuncia che nel Lazio non farà l’alleanza con il Pd, anche se fin qui governano insieme e insieme potrebbero vincere.

Conte dice no  al termovalorizzatore che ha già fatto saltare il governo Draghi, e no al candidato dem Alessio D’Amato, assessore alla salute. Ma la vera ragione dei due no è politica. La sua versione è: Letta ha tentato il “conticidio” attraverso Di Maio, con «questi vertici Pd», dice Conte, lui ha «difficoltà a sederci allo stesso tavolo».

19 novembre: il congresso pazzo

Il Pd deve arginare il rischio di scioglimento e di sindrome “francese”, l’irrilevanza in cui sono piombati i socialisti di Parigi. L’assemblea nazionale del Pd approva il congresso «costituente». Secondo il dispositivo  la direzione nomina il «comitato costituente nazionale» entro il 22 gennaio 2023 deve elaborare il manifesto del nuovo Pd che a sua volta dovrà essere approvato dall’assemblea. 

Al congresso possono partecipare anche non iscritti:  così Letta apre le porte ad Art.1,  che si dispone a rientrare nel partito. E alla candidata segretaria outsider Elly Schlein, che di lì a poco si lancerà (prima di lei lo hanno già fatto Paola De Micheli e Stefano Bonaccini, dopo di lei all’antivigilia di Natale annuncia la sua corsa Gianni Cuperlo).

Entro il 12 febbraio i candidati dovranno essere votati dai circoli, e una settimana dopo, entro il 19 febbraio nei gazebo avverrà lo spareggio fra i primi due. Il lavoro del comitato costituente inizia fra le polemiche: il dibattito sembra troppo spostato a sinistra. Severi moniti dai padri fondatori Pierluigi Castagnetti e Arturo Parisi. I “riformisti”, che stanno con Bonaccini, avvertono: solo la futura assemblea, quella che risponderà al nuovo segretario potrà approvare il testo.

Il Pd ha votato diversamente, ma ormai è saltato tutto, e anche la fase «costituente» viene evocata, ma solo a parole. 

9 dicembre: Qatargate

Il 9 dicembre il quotidiano belga Le Soir fa emergere le prime notizie di una indagine della magistratura di Bruxelles avviata a luglio: un ciclopico caso di presunta corruzione di alcuni eurodeputati socialisti da parte di mediatori del Qatar impegnati a pagare per “aggiustare” le scelte degli europarlamentari sul paese che ospita i Mondiali di calcio. Dal giro di soldi, dalla ragnatela dei coinvolti, siamo di fronte allo scandalo più grande della storia dell’Ue.

Vengono perquisite le abitazioni e gli uffici di personalità di spicco dell’europarlamento, la vicepresidente Eva Kaili finisce agli arresti, l’ex eurodeputato italiano Antonio Panzeri, Francesco Giorgi, compagno di Kaili ed ex assistente di Panzeri, e Niccolò Figà Talamanca, segretario di una Ong. Le accuse sono corruzione, riciclaggio e associazione a delinquere. Nei giorni successivi l’ipotesi si allarga anche al Marocco. 

Il Pd non è direttamente implicato: Panzeri è uno scissionista di Art. 1. Ma nella vicenda sono coinvolti assistenti di europarlamentari del Pd, e l’eurodeputato Andrea Cozzolino, lui sì del Pd, viene sospeso di gran carriera il 16 dicembre.

Il giorno dopo, il 17, il Pd aveva convocato una manifestazione di piazza, quando Letta credeva che il congresso sarebbe stato un bagno di entusiasmo ritrovato per i militanti. 

La piazza resta mezza vuota, il morale dei pochi presenti è sotto le scarpe. Dal palco Letta parla poco, è influenzato, parlano invece i candidati alle regionali di Lazio e Lombardia, Alessio D’Amato e Pierfrancesco Majorino.

Si vota il 12 febbraio, quasi in contemporanea con le primarie. Per tutto, è tutta salita.

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