Gli ottant’anni dalla Liberazione sono l’ennesima occasione perduta per la destra di estrazione missina al potere da quasi tre anni. I governanti attuali vorrebbero sterilizzare questa data. Trasformarla in una data morta sul calendario, in una festività secondaria e irrilevante sul presente
Tra i cinque giorni di lutto nazionale per papa Francesco e l’invito ai festeggiamenti sobri, calati dall’alto ministeriale, il 25 aprile 2025, data tonda, ottant’anni dalla Liberazione, è l’ennesima occasione perduta per la destra di estrazione missina al potere da quasi tre anni.
Dall’a-fascismo all’anti-antifascismo per non dirsi semplicemente anti-fascisti, tutto viene utilizzato per trasformare questa fastidiosa data del calendario da giornata particolare a giornata normale, da passare rapidamente per girare pagina.
Senza la morte del papa, la premier Giorgia Meloni sarebbe volata a Samarcanda, in Uzbekistan, a 6.175,9 chilometri dall’Italia, lontana dalle polemiche, dai cortei che attraverseranno tutto il paese, da tutto quello che minaccia di incrinare la sua immagine di leader globale propagandata dai suoi seguaci.
L’ondata di emozione per la scomparsa di papa Francesco è stata utilizzata per mettere in contrapposizione due sentimenti che nessuno vive come separati: il dolore per un papa tanto amato e la festa per la libertà ritrovata. Anche perché nessun papa di questo secolo è stato così autenticamente resistente come papa Francesco: partigiano per la pace, per i diritti dei più deboli, contro la globalizzazione dell’indifferenza.
Non furono indifferenti i partigiani che fecero la scelta esistenziale di credere in un paese diverso, dopo che il fascismo lo aveva distrutto e asservito allo straniero invasore: il più forte e diffuso movimento della Resistenza europea. Non furono indifferenti i tanti italiani e italiane normali che per istinto e non per appartenenza politica si schierarono per aiutare chi combatteva per la libertà. La Resistenza civile, che è l’opposto della zona grigia.
«La Resistenza civile comporta un atto di trasgressione, la zona grigia si basa sul conformismo», ha osservato lo storico Claudio Pavone. «Chi staziona nella zona grigia vuole, e in questo senso anch’egli sceglie, porre tra parentesi l’eccezionalità degli eventi in cui si trova gettato a vivere. Da essi egli vuole soltanto difendersi, nel ricordo di una normalità di cui auspica il sollecito ritorno».
Gli inviti alla sobrietà
Parentesi, normalità, conformismo, continuità, ma anche rivoluzione, eccezionalità, rottura, sono le parole che segnarono il difficilissimo nuovo inizio ottant’anni fa e che continuano oggi. La zona grigia, intesa come indifferenza alle ragioni e ai torti, conformismo e accomodamento, è la più affollata in questi giorni, in questo dibattito pubblico desolante. Solo chi ha un’estraneità totale con questa storia può immaginare che la Liberazione sia vissuta come una festa sguaiata. È un’offesa a migliaia e migliaia di cittadini che in tutta Italia cominceranno questa giornata visitando un monumento ai caduti, deponendo una corona di fiori, partecipando a un corteo o una manifestazione, ascoltando le orazioni civili che compongono il nostro tessuto civile.
Chi invita alla sobrietà non ha mai visto ogni anno la salita nei boschi verso Monte Sole e Marzabotto, tra le croci, i muri ancora crivellati di pallottole, non ha ascoltato il silenzio da brivido, il vento che porta in sé le voci delle vittime degli eccidi nazifascisti, donne e bambini, preti con la loro comunità. Non è mai venuto a Casa Cervi, immersa nella campagna emiliana, un luogo sacro dove la memoria per i sette fratelli massacrati dai fascisti si traduce in impegno quotidiano, dove anche le querce del bosco sono resistenti. Non ha mai letto le pagine degli antifascisti più lucidi. Mai trionfalistiche, mai propagandistiche, sempre dubbiose e severe, prima di tutto con se stessi.
«Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza ma contro interessi, pregiudizi, cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti. Combattere tra di noi e dentro noi stessi… la lotta non avrebbe avuto più un unico, immutabile volto ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi…», scriveva Ada Gobetti alla fine di Diario partigiano. E Vittorio Foa: «Noi dovevano combattere il fascismo fra di noi, fra italiani, e poi anche dentro di noi. La critica degli altri poteva partire solo dalla critica di noi stessi. La costruzione di una vera democrazia chiedeva la messa in discussione del nostro passato e non solo la sconfitta del nemico esterno». Quando abbiamo ascoltato simili ragionamenti autocritici tra chi oggi fa appello alla sobrietà?
Memoria condivisa
È questo il 25 aprile che i governanti attuali vorrebbero sterilizzare. Trasformare il 25 aprile in una data morta sul calendario, in una festività secondaria e irrilevante sul presente. Per andare, ancora una volta, verso una lettura univoca del presente. Il senso comune propagandato da Donald Trump e J.D. Vance, con cui l’ideologia più feroce veste i panni della normalità e accusa ogni voce dissonante o dissidente di faziosità e di partigianeria. Ottant’anni fa chi si riteneva depositario dello spirito nazionale accusò i partigiani di spaccare la comunità nazionale, dopo aver diviso in venti anni di regime fascista italiano da italiano, anziano da giovane, ariano da ebreo, maschio da femmina. Fino ad arrivare al crack finale, alle complicità dei fascisti italiani con gli stragisti nazisti.
L’antifascismo è prima di tutto il riconoscimento storico della parte giusta della storia che non ammette memorie condivise, come ha scritto su Domani Gianfranco Pasquino. La memoria condivisa in nome della pacificazione è la notte scura in cui nessuna responsabilità è possibile, tutti sono uguali e interscambiabili, non a caso fu predicata negli anni Novanta a sinistra, quando il progetto del paese normale affascinava i post-comunisti almeno quanto oggi mobilita i post-missini. All’epoca significava eliminare i retaggi delle antiche identità per candidarsi a un posto di primo piano per far parte dell’establishment della cosiddetta Seconda Repubblica. Era il progetto fallito della commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema.
Oggi memoria condivisa ha un significato diverso: la destra di Meloni andata al governo con la fiamma del Movimento sociale nel simbolo ha l’obiettivo storico di mettere tra parentesi gli ottant’anni della Repubblica fondata sulla Costituzione democratica e anti-fascista, di consegnare questa stagione alla storia e aprire una nuova fase. Con il sottinteso che la guerra è finita e che non ci furono vincitori e vinti. Mentre i prossimi vincitori saranno decisi dai rapporti di forza, dai sistemi di alleanze, dal potere mediatico che isola e brutalizza gli oppositori non accomodanti, che siano essi leader di partito, sindacalisti, insegnanti e docenti universitari, magistrati, giornalisti, studenti.
La via istituzionale è per ora interrotta, troppo complicato far approvare la riforma della Costituzione nota come premierato. Resta una strada per così dire culturale: banalizzate banalizzate, alla fine qualcosa non resterà, nulla resterà. Se la sfida è su questo piano servirà una resistenza culturale. Sul piano storico ne trovo traccia nel volume collettivo Resistenza (a cura di Filippo Focardi e Santo Peli, Carocci). Ma la sfida tornerà presto sul piano sociale, politico, istituzionale. E non basterà riprendere le parole d’ordine del passato, ogni generazione politica ha la sua resistenza, come insegna l’impegno spontaneo di tanti giovani che non intendono restare indifferenti. Quella della generazione politica di oggi forse si chiama Europa, l’Europa dei diritti e delle libertà, molto diversa da questa, chiusa nei suoi confini. È l’orizzonte non può oscurare questo giorno di festa nazionale, festa di popolo, festa di tutti, che nessuno può toccare.
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