Le contestazioni paventate, suscitate e per una parte dei media persino desiderate e tifate, alla fine si riducono a qualche fischio a Milano, alla manifestazione nazionale per il 25 aprile, un’azione “di disturbo” alle commemorazioni di Genova (fatta dagli ex M5s di Alternativa, da Italexit e dal Partito comunista di Marco Rizzo) e una salva di offese a Reggio Emilia alla delegazione di Italia viva che aveva dato una bandiera americana a una bambina.

Niente di buono, naturalmente. Nel corteo del capoluogo lombardo, che nel pomeriggio arriva a piazza Duomo, compaiono le bandiere Nato, e quelle Usa, portate da un’associazione vicina alla galassia radicale per convinzione ma anche e forse soprattutto per sfida. Qualche fischio, una litigata in piazza, il cartello “Milano contro la guerra” dei centri sociali si prende la piazza alla fine della manifestazione ufficiale. I tantissimi di Emergency sventolano stracci bianchi, si sa che Gino Strada era un disarmista che chiedeva in tutte le guerre «uno straccio di pace». Ma i servizi d’ordine di tutti si sono impegnati a non cadere in provocazioni.

In piazza

Prima della partenza del serpentone con le bandiere della pace, che la questura valuta in 25mila e gli organizzatori in 75mila, il sindaco Beppe Sala dà il benvenuto alla comunità ucraina – dal palco poi parleranno due esponenti – e davanti a loro chiarisce che «non è il momento dell’ambiguità», per lui «le armi vanno mandate e lo dico oggi nel giorno della Liberazione, che non è stata fatta con le parole ma combattendo». La Brigata ebraica prende qualche fischio, rito ignobile di ogni 25 aprile. Quest’anno anche il Pd riceve la sua parte di contestazioni. Il segretario incassa una scritta sui muri di porta Venezia e qualche strillo contro la sua scelta pro riarmo. A prendersela con lui è il Carc, gruppetto rivoluzionario che riesce nell’acrobazia teorica di ispirarsi insieme a Mao e Stalin. «Questa è la democrazia» replica Enrico Letta, ma anche «questa è casa nostra». La contestazione al Pd viene definita «folle» da Sala e condannata anche da Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi che negli ultimi giorni ha formulato meglio la sua posizione a fianco dell’Ucraina (lui però nega di esser stato mai «ambiguo»). I fischi al Pd, dice in piazza sono «un grave errore perché queste cose il 25 aprile non servono mai». Pagliarulo parla dopo Maurizio Landini, leader Cgil, che punta sulla solidarietà alla resistenza ucraina e contro l’invasione russa, ma anche sul no «a riarmare tutto il mondo». Fischi dagli ucraini. È il presidente Anpi a concludere, unitario come non mai, dice «non facciamoci prendere dal demone della divisione», stavolta evita di ragionare sulla Nato, insiste sulla condanna di Putin, e sul «diritto di difendersi» dell’Ucraina. Ma con il riarmo generale teme una guerra mondiale.

Il nodo delle armi

Il tema “divisivo” resta l’invio delle armi. Da Acerra la mattina il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ripete parole chiarissime ispirate alla nostra Resistenza, «nelle prime ore del 24 febbraio siamo stati tutti raggiunti dalla notizia che le forze armate russe avevano invaso l’Ucraina», «mi sono venute in mente queste parole: “una mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor”». Eppure oggi Bella ciao la cantano tutti, quelli che vogliono aiutare l’Ucraina in armi e quelli che no. Per il presidente Mario Draghi, che parla da remoto – ha il Covid – «la generosità, il coraggio, il patriottismo dei partigiani e di tutta la Resistenza sono valori vivi e attuali». Ma insomma il 25 aprile va in piazza un paese per com’è: sfila insieme nel nome dell’antifascismo, ma resta diviso. A Roma, per dire, ci sono due cortei. Uno della sinistra radicale e dei sindacati di base. Qui sono tutti d’accordo: contro il governo, contro la Nato. L’altro è convocato dall’Anpi e finisce come sempre a Porta San Paolo. Qui arriva un fischio solitario, peraltro eseguito senza competenza, su un passaggio del discorso dell’assessore Miguel Gotor, che dal palco, a nome del Campidoglio, parla della resistenza ucraina. Lo contestano quelli di Potere al popolo, dal fondo della piazza, scandiscono «con il Donbass antifascista» e sventolano una bandiera palestinese.

In realtà la Comunità palestinese, da anni al centro della protesta di quella ebraica romana – che ha ritirato dai cortei unitari le insegne della Brigata ebraica – non è venuta. Segno di solidarietà all’Anpi per gli attacchi, e per non provocargliene altri. La comunità ebraica ha deposto fiori alle lapidi dei partigiani, ma alle otto di mattina, e poi si è riunita al museo della Resistenza di Via Tasso. Dal presidente dell’Anpi romana, Fabrizio De Sanctis, il no alle armi arriva cosi: «Il simbolo dei partigiani non è un fucile ma un fiore». Eppure sulla prima tessera dell’Anpi, anno 1947, ci sono una pala e proprio un fucile.

Di bandiere ucraine ce ne sono solo due: una l’ha portata Giuseppe, dell’Anpi dell’Aurelia, l’altra un cittadino originario della Romania, l’ha cucita insieme a quella dei Rom, dell’Italia e della Ue. Non ci sono bandiere Pd. Quasi tutte le altre associazioni combattenti sono a piazza di Torre Argentina. Con loro ci sono Carlo Calenda di Azione e Riccardo Magi di +Europa. «La Resistenza è un patrimonio comune. Sta all’Anpi depoliticizzare gli eventi che fa», dice Calenda. Dibattiti democratici fra democratici. Che non considerano che dall’altra parte c’è chi non festeggia la Liberazione. E sta dalla parte di Putin, ma sul serio.

© Riproduzione riservata