Qual è stato il ruolo delle donne nella Resistenza? I numeri ufficiali parlano di 35 mila partigiane combattenti, 20 mila con funzioni di supporto, 70 mila nei Gruppi di difesa della donna.

Ma i numeri non raccontano tutta la storia, perché non tengono conto delle molte che hanno partecipato in azioni informali. Soprattutto, i numeri non raccontano cosa volesse dire, negli anni Quaranta, per una donna di vent’anni, cresciuta sotto le rigide norme di genere del regime fascista, raggiungere un gruppo di uomini sui monti e condividerne la vita, imbracciare un fucile sfidando i pregiudizi, usare come arma contro il nemico il proprio corpo seduttivo, subire torture sessuali, tenere testa ai compagni – spesso anche al proprio compagno di vita – e scoprirsi libera.

Su questo complesso insieme di esperienze, trasformazioni personali, conquiste collettive, gioie segrete e ferite incurabili, offre uno sguardo nuovo il libro della storica Margherita Becchetti, Non per bellezza. Donne (e uomini) nella lotta partigiana (MUP Editore).

Il titolo è ispirato alle parole della partigiana Elsa Oliva, che unendosi alla Divisione Valtoce nell’Ossola mise subito le cose in chiaro con i compagni: «Non sono venuta qua per cercarmi un innamorato. Io sono qua per combattere e ci rimango solo se mi date un’arma». Un’arma vera, da non tenere «solo per bellezza, ma per mirare e colpire».

Trasgressione

Le donne che hanno preso parte alla lotta partigiana non erano obbligate: nessun bando di reclutamento le avrebbe costrette ad arruolarsi nella Repubblica sociale italiana, non dovevano fuggire o nascondersi come molti uomini. Hanno fatto una scelta, e una scelta capace di far loro scoprire possibilità del tutto nuove. Ibes Pioli ricorda le tante donne accanto a lei che volevano «riscattare la propria personalità, farsi valere un domani nella politica».

Marisa Ombra parla della «sconvolgente scoperta» che «la vita era – poteva essere – qualcosa che si svolgeva su orizzonti molto più vasti rispetto a quelli fino allora conosciuti». Scegliere la lotta partigiana significava anche, per tutte, trasgredire: disobbedire alle leggi in vigore, ma anche ai codici di comportamento a cui, come donne, avrebbero dovuto attenersi. A una bambina cresciuta nell’Italia fascista, ricorda l’autrice dello studio, veniva spiegato fin da subito «che il suo posto è la casa e il suo orizzonte la culla: angelo del focolare, madre per natura e destino, e nulla più».

Si comprende perciò che fare scelte di libertà richiedesse di combattere un conflitto su più fronti: fuori da sé, contro i giudizi della gente, le proibizioni, i tabù, il controllo sociale, e dentro di sé, contro i divieti interiori. Significava assumere il rischio di trovarsi «fuori posto», perché «il posto di una donna non è la guerra, non è indossare scarponi e pantaloni, non è stare insieme agli uomini e fare ciò che fanno loro».

Un conto è protestare contro la guerra, o proteggere, aiutare, rivestire in abiti civili i soldati dopo l’8 settembre. Questo può apparire (erroneamente) come un prolungamento naturale di quel ruolo di cura che le donne assolvono da che mondo è mondo.

Ben altro conto è darsi alla lotta armata, o fare la staffetta, proiettarsi negli spazi maschili. Sfidare una cultura intrisa di stereotipi sulla fragilità, l’inerzia, il bisogno di protezione femminile. Gli stessi stereotipi che possono essere abilmente sfruttati dalle donne per attraversare i posti di blocco e garantire i collegamenti diventano un ostacolo quando si tratta di essere riconosciute come combattenti.

Fuori posto

Inoltre, essere «fuori posto», fare la guerra con gli uomini, vivere fianco a fianco in condizioni di promiscuità, espone al pesante stigma della «donna facile», della «puttana». Un pregiudizio che non bastano la guerra e la Resistenza a scacciare.

Già al momento della Liberazione, le partigiane ritroveranno intatto il peso della morale dominante, non solo nei commenti della gente, ma persino negli atteggiamenti dei comandi delle brigate, restii a far sfilare le donne in armi. «Un esercito fatto di donne non s’è mai visto, non è una cosa seria. E per accreditarsi a guidare la nuova Italia bisogna dimostrare serietà, rispetto delle tradizioni, senso della moralità».

Dopo il 25 aprile del 1945, per molte «ragazze» fu la fine della «trasgressione», il ritorno «al proprio posto». Le donne furono, con poche eccezioni, ricacciate «nelle retrovie della storia», anzi sparirono dalla storia divenendo una massa senza volto, senza identità. Gli uomini cominciarono a comporre il grande racconto corale della Resistenza, mentre per le donne si parlerà a lungo solo di «contributo» alla lotta, tutt’al più di «partecipazione».

Dunque tutto è cambiato perché niente cambiasse? In realtà, come ha scritto Nadia Urbinati in un recente articolo pubblicato nel Journal of Modern Italian Studies sull’ottantesimo anniversario del voto alle donne, «Nothing changed, but nothing was the same again». Quel diritto che, dopo un’ostilità secolare, arrivò alla fine della guerra fu proprio il risultato del «contributo» delle donne alla Resistenza.

E anche in seguito, la libertà di cui la lotta partigiana ha spalancato le porte non ha smesso, nell’Italia del dopoguerra, di agire come uno stimolo sotterraneo alla crescita di nuove soggettività femminili. Solo negli anni Settanta, però, con il femminismo della seconda ondata, le “figlie” delle combattenti di allora cominciarono a raccogliere la memoria delle “madri” e a studiarla, restituendo loro voce.

Anche in questo caso si è trattato di una scelta. La scelta di riconoscersi in una “genealogia”. Come scrive la politica e saggista Cecilia D’Elia nel libro Chi ha paura delle donne. Libertà femminile e questione maschile (Donzelli), non si tratta di ereditare una «tradizione da rispettare», ma di fare un movimento ascendente, che parte dall’interrogazione di chi è venuta prima. «Nonostante come cittadine abbiamo il diritto di partecipare al voto da soli ottant’anni, non siamo “nate ieri”, ma il modo in cui si reinterpreta chi è venuta prima fa la differenza anche tra noi donne».

Le analogie con oggi

Margherita Becchetti conclude la sua ricostruzione chiedendosi quanto di ciò che hanno provato le donne di allora somigli a quello che molte provano ancora oggi, quando si addentrano negli universi maschili.

Il libro di D’Elia, che riflette sull’esperienza dell’essere «differenti» nelle istituzioni e nella politica, sembra idealmente risponderle: «Quante volte, e a quante, è capitato di essere l’unica donna nella stanza. Ogni volta lo noto e lo faccio notare, a costo di apparire la solita noiosa femminista».

Un filo rosso lega le battaglie delle partigiane per essere riconosciute dai compagni e da chi è venuto dopo, e gli ostacoli che ancora oggi le donne devono affrontare quando entrano nelle stanze di una politica per secoli modellata al maschile, specialmente se intendono farlo come femministe. Un filo che non è fatto solo di desiderio di libertà, ma anche di una «questione maschile» mai risolta.

Una «crisi identitaria», la chiama D’Elia, che «convive con il segno ancora fortemente maschile del potere». In politica, come nello spazio privato.

In fondo non suonano così lontane le parole di Elsa Oliva, quando ricorda che l’ostacolo maggiore all’emancipazione femminile è proprio «l’uomo politicizzato e non politicizzato», «di sinistra e non di sinistra», che «fa fatica ad abbandonare, a scaricare la posizione di privilegio che ha. Gli pare di diventare meno uomo».


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