Il 20 e 21 settembre si voterà il referendum costituzionale sulla legge che prevede la riduzione del numero dei parlamentari: da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori. Il quesito è positivo, quindi votando Sì la legge entra in vigore, votando No viene abrogata. Il referendum non ha quorum: a prescindere dal numero di elettori che si recheranno alle urne vincerà la posizione che otterrà più consensi.

Il taglio dei parlamentari non modifica in alcun modo gli equilibri e le prerogative delle due Camere: le leggi continueranno a dover essere approvate con testo identico dalla Camera e dal Senato e il governo dovrà ottenere la fiducia di entrambe le assemblee per insediarsi. Il bicameralismo paritario previsto dalla Costituzione, dunque, non viene toccato.

La legge è stata presentata dal Movimento 5 stelle, che ne ha fatto una delle sue bandiere politiche, con gli obiettivi di risparmio economico sui costi della politica e di velocizzazione dell’iter legislativo.

Se la modifica della composizione del parlamento entrasse in vigore, andare a votare sarebbe però impossibile. A oggi manca una legge elettorale che disegni i nuovi collegi sulla base della riduzione del numero degli eletti.

Una analoga scelta di riduzione del numero dei parlamentari è stata già sottoposta al vaglio degli elettori. Nel 2016 si è svolto il referendum confermativo sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi che prevedeva, nel progetto di modifica dell’assetto costituzionale italiano, la riduzione del numero dei senatori da 315 a 100. Il risultato è stato una bocciatura della legge, con la vittoria del No con il 59 per cento dei voti.

A differenza della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari approvata lo scorso ottobre, però, la Renzi-Boschi era una riforma di sistema che puntava a trasformare il bicameralismo perfetto in bicameralismo differenziato.

La previsione del taglio dei senatori si inseriva in un meccanismo più ampio. Il Senato sarebbe diventato una Camera delle regioni, con 100 senatori (95, più 5 senatori a vita) al posto degli attuali 315 eletti indirettamente: 74 senatori venivano infatti scelti tra i consiglieri regionali, 21 tra i sindaci, con un mandato della durata della loro carica elettiva in consiglio regionale o nel comune. Di conseguenza, il Senato diventava un organo a rinnovo parziale e continuo, con i componenti che variavano sulla base delle sorti delle amministrazioni territoriali che li avevano scelti.

Il Senato così riformato doveva fungere da raccordo tra lo stato e gli enti territoriali ed esercitava una funzione legislativa solo su specifiche materie: leggi costituzionali, leggi che investono i rapporti con l’Unione europea; leggi sull’ordinamento degli enti territoriali e sui rapporti con lo stato. In questi casi, il bicameralismo rimaneva perfetto. Nella nuova dimensione di bicameralismo differenziato, la Camera dei deputati doveva diventare l’unica a esercitare la funzione legislativa su materie di carattere generale e l’unica titolare di un rapporto di fiducia con il governo.

La riforma costituzionale voluta dal governo Renzi prevedeva anche la soppressione del Cnel, la revisione del titolo V della Costituzione che disciplina i rapporti tra stato ed enti locali e l’introduzione di un procedimento legislativo velocizzato per i disegni di legge proposti dal governo e ritenuti “essenziali per l’attuazione del programma”.

L’allora premier Matteo Renzi indicava come obiettivi della riforma lo snellimento dell’iter legislativo, il risparmio economico grazie alla soppressione del Cnel e al taglio dei senatori, la riduzione dei conflitti di attribuzione tra stato e regioni.

Nel 2016 gli elettori si sono espressi a maggioranza contro la riforma e dunque anche contro la riduzione del numero dei senatori. Tra le ragioni del No – sostenute anche dal Movimento 5 stelle – c’era l’esiguità dei risparmi previsti dal taglio dei parlamentari.

Non è possibile fare una sovrapposizione perfetta tra la legge costituzionale oggetto del prossimo referendum e la riforma bocciata nel 2016. La prima è una legge a sé stante, che non tocca gli assetti istituzionali ma si limita a ridurre il numero di rappresentanti. La seconda aveva l’ambizione d’essere una modifica di sistema

L’esito del voto, oggi come nel 2016, è fortemente condizionato dalla situazione politica. Quattro anni fa Renzi aveva impostato la campagna referendaria per il Sì come un quesito non solo sulla bontà della riforma costituzionale, ma anche sul gradimento del suo governo. Il referendum era stato promosso da due distinte raccolte di firme: una presentata dall’opposizione e una dalla stessa maggioranza di governo. “Mi gioco tutto sul referendum”, aveva detto l’allora presidente del Consiglio, sostenendo di essere pronto alle dimissioni in caso di bocciatura. E così è andata: tre giorni dopo la vittoria del No, ha presentato le sue dimissioni.

Memore della lezione di Renzi, oggi il Movimento 5 stelle sta gestendo in modo diverso la campagna referendaria, ben attento a non sovrapporre le sorti del governo Conte II alla vittoria del Sì. Secondo il sondaggio più recente, elaborato a fine giugno da Ipsos per il Corriere della Sera, il Sì è in vantaggio netto con il 46 per cento; il No è fermo al 10 per cento. Il fronte degli indecisi è molto ampio con il 24 per cento, mentre il 20 per cento è orientato per votare scheda bianca o non votare. Tuttavia, solo il 28 per cento degli intervistati dice di essere a conoscenza che si terrà il referendum. A favore del taglio si sono espresse tutte e tre le principali forze di opposizione. Lega e Fratelli d’Italia sono sempre stati netti su questa posizione, mentre Forza Italia si è espressa formalmente solo ora con l’intervento della capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini, ma numerosi parlamentari hanno ribadito il loro voto contrario. Il Partito democratico è ancora diviso al suo interno: il segretario, Nicola Zingaretti, non ha ancora espresso la posizione ufficiale del partito e la spaccatura interna è profonda. Il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, ha detto che voterà Sì in un’intervista a Repubblica.

La corrente di minoranza, in particolare con il deputato Matteo Orfini, sembra essere schierata per il No, mentre la componente centrista Base riformista è orientata per il Sì. Inoltre, il tema referendario si è inserito nel più ampio dibattito sulla necessità di un congresso che definisca la linea del Pd, soprattutto rispetto all’alleanza con i 5 Stelle. Eppure, una variabile esterna che potrebbe incidere è la concomitanza con il voto amministrativo regionale in ben sei regioni che alzerà inevitabilmente il numero di votanti al referendum in quei territori. Inoltre, i votanti potrebbero legare il loro voto al referendum all’orientamento sul tema del partito che sosterranno alle regionali. In questo modo, l’esito del referendum rischierebbe di essere di fatto determinato dal grande afflusso di votanti di Liguria, Veneto, Marche, Toscana, Puglia e Campania.

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