Per scongiurare il rischio che oggi il Pd innescasse il meccanismo di autodistruzione, all’accordo fra le correnti non c’era alternativa. Quell’accordo è arrivato ieri pomeriggio.

Era l’unica possibilità: perché se alle 17 della vigilia del voto i delegati non intruppati ancora non conoscono il testo della modifica dello statuto che cambia tutto, se quel testo non è ancora conoscibile almeno dalla maggioranza dei mille dell’assemblea nazionale che lo devono votare, allora non c’è altro santo a cui appellarsi che le benedette correnti: perché, trovato un accordo, facciano il loro mestiere, ovvero convincano i propri a non fare casino.

Stiamo parlando di modifiche statutarie serie, se ci si prende sul serio: che consentono di eleggere un segretario che fino a oggi non è neanche iscritto – insomma consentono alla giovane attivista Elly Schlein di pensare alla corsa – e cioè fanno saltare quei meccanismi di buonsenso che nel 2009 tennero alla larga Beppe Grillo, e l’anno prima Marco Pannella, considerati due provocatori. Al netto dell’imprevisto (metti che alla Sala delle Bandiere di Roma un delegato si faccia girare le scatole e chieda la verifica dei numeri, e scopra che non ci sono), oggi l’assemblea del Pd voterà di anticipare l’elezione del suo prossimo segretario. Formalmente la proposta viene da un appello di un gruppo di donne, che ha raccolto mille firme, secondo le quali «non esiste che la nuova leadership si manifesti a marzo».

Ma è un segreto di Pulcinella che il candidato (non ancora ufficiale) Stefano Bonaccini e Base riformista, la corrente che a tempo debito lo sosterrà, voleva anticipare i tempi rispetto alle primarie del 12 marzo, che pure Base riformista ha votato all’ultima direzione nazionale, il 28 ottobre. E non è un mistero che l’ala sinistra, che invece quel calendario non l’ha votato, chiedeva un “vero” confronto interno e con le new entry. Che alla fine sono: Schlein, in predicato di lanciarsi nella mischia, e “les revenants” di Art.1 che però a Enrico Letta chiedono la garanzia di entrare in una cosa che non sia esattamente lo stesso Pd da cui sono usciti nel 2017.

Fare presto

Letta si è schierato con chi chiedeva di fare presto: è rimasto al suo posto, benché dimissionario, per tenere il timone alla nave alla deriva, ma ha capito che da segretario dimezzato è impossibile non accumulare errori: dal 25 settembre il Pd perde voti nei sondaggi, a febbraio arriveranno nuove sberle dalle regionali: a Milano la scelta “di sinistra” di Pierfrancesco Majorino a candidato per la presidenza della regione è agevolata dalle poche possibilità di vittoria; nel Lazio, chiusa l’alleanza con M5s, lo stile di Carlo Calenda – grande elettore di Alessio D’Amato – rischia di sfasciare l’antica amicizia con i rossoverdi. Se l’assemblea lo voterà, il “congresso costituente” andrà veloce.

Possono partecipare anche i cittadini che sottoscrivono l’adesione e gli iscritti ai partiti e alle associazioni che aderiscono «con deliberazione degli organismi dirigenti», leggasi Art.1. La direzione eleggerà un Comitato di personalità del Pd e non, i soliti saggi, che entro il 22 gennaio 2023 scriveranno un “Manifesto dei principi”. Poi parte la cavalcata: entro il 27 saranno ufficializzate le candidature. In due settimane, e cioè entro il 12 febbraio 2023, i candidati e le loro piattaforme dovranno essere votati dai circoli, e una settimana dopo, entro il 19 febbraio nei gazebo aperti avverrà lo spareggio fra i primi due. Se va bene il famoso confronto in profondità lo faranno i saggi. Ma non è detto.

Due segretari

Se oggi viene evitato, il caos resta dietro l’angolo: nel Lazio i poveri militanti dovrebbero, nelle stesse settimane, dividersi sul candidato al congresso e intanto come un sol uomo fare campagna elettorale per D’Amato (qui si vota il 12 febbraio). Nella storia del Pd, il candidato che vince nei circoli è sempre confermato dal voto “aperto” dei gazebo.

Se non succedesse, si materializzerebbero di fatto due segretari: uno votato dal partito e uno votato dai non iscritti: e stavolta non è impossibile. Ieri Andrea Marcucci, un riformista che si diverte a parlare chiaro, ha spiegato che il Pd di Schlein è da «opposizione permanente».

Si capisce a cosa allude: al fatto che una sua eventuale vittoria spingerebbe l’ala riformista fra le braccia del terzo polo. Viceversa, è difficile che una vittoria di Bonaccini tratterrebbe nel Pd i militanti della sinistra del partito. Che è poi l’eterna oscillazione del Pd, da quando è nato. Solo che stavolta, finito il congresso, il Pd dovrebbe decidere cosa farà da piccolo.

 

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