«Non si può fare nient’altro che andare in parlamento. Anche a costo di non prendere la fiducia». Lo sfogo di un ministro Pd, a fine giornata, racconta cosa succede sul fronte dem del governo. Al Senato il balletto dei numeri è infinito, in una giostra di offerte avanzate e ritirate, torrenti di parole e millantato credito. Tratta il ministro Dario Franceschini, trattano Bruno Tabacci (Centro democratico), tratta Lorenzo Cesa (Udc) che ufficialmente smentisce, ma la “sua” senatrice Paola Binetti si dice disponibile a entrare in maggioranza «a patto che Conte coinvolga tutto il mio partito» e c’è già chi la indica – ma non è una cosa seria – come ministra della Famiglia, e come ministro dell’Agricoltura il suo collega Saverio De Bonis, uno scatenato contro la Coldiretti, del Maie (Movimento Associativo Italiani all’Estero, da cui da ieri è gemmata Italia 23, gruppo di aspiranti contiani considerati il nucleo del partito del premier). Tratta anche Clemente Mastella, sua moglie Sandra Lonardo, nel grupo misto, già vota con la maggioranza. Per Giuseppe Conte i negoziati sarebbero affidati a Alessandro Goracci, capo di gabinetto di palazzo Chigi, figura istituzionale ma di fiducia del presidente, e a Mario Turco, sottosegretario alla presidenza del consiglio. Tratta il socialista Riccardo Nencini, detentore del simbolo Psi con il quale Italia viva ha potuto varare il suo gruppo al Senato: si è offerto fra i «costruttori» ma smentisce (per ora) di voler sbracare il gruppo renziano. Ancora pontieri: sono noti i rapporti di amicizia fra Goffredo Bettini e Gianni Letta.

I dubbi del Pd

Il Pd in realtà «dà una mano» ma resta defilato. Non per scetticismo sul successo, ma perché è chiaro che una volta raggranellati i sì che serviranno martedì a approvare le comunicazioni del presidente del Consiglio, e a dargli il tempo di riorganizzare le file della maggioranza, resterà il problema politico: quanto può andare avanti una maggioranza «raccogliticcia» (copy Renzi) e con quale programma? I voti si materializzano, uno alla volta: non ne servono 161, la soglia della maggioranza qualificata, basterà la metà dei presenti. Gli almanacchi del Senato segnalano che il primo Berlusconi che ha governato con soli 159 voti. Renzi, poi, darà un aiutino, annuncia che si asterrà: ha paura che i suoi si spacchino.

Bene, ma dopo? Spiega Nicola Zingaretti alla riunione con i deputati Pd: «Ci si rivolge al parlamento in maniera aperta e trasparente, perché si possa definire un allargamento possibile della maggioranza» ma «con una garanzia sui contenuti e un profilo politico che dovrà essere costruito» perché «purtroppo tutti i nodi della verifica sono ancora sul tappeto». In giornata arrivano segnali di fumo dalle ex ministre Iv, Teresa Bellanova e Elena Bonetti, e dal capogruppo al Senato Davide Faraone: «Abbiamo chiesto al premier di sciogliere alcuni nodi irrisolti all’interno della maggioranza. Se Conte pratica questa strada noi ci siamo, se invece vogliono tenere insieme una maggioranza raccogliticcia che non risolve i problemi del paese, pazienza» dice a Fanpage.

Dal M5s arrivano valanghe di «mai più». Ma anche per Zingaretti con Renzi la storia è chiusa: «Fino a qualche minuto prima della conferenza stampa di Italia viva siamo stati impegnati a fare di tutto. La rottura è un fatto grave e irresponsabile», spiega ai deputati, «Se non si voleva il salto nel buio si doveva lottare insieme a noi per ottenere risultati e invece ora si restringe lo spazio politico per ottenere quei risultati». Non è che nel Pd la pensino tutti così. Un padre nobile del partito come Piero Fassino avverte che «non si possono tagliare i ponti con Iv». Il rischio è che il nuovo governo vada a sbattere è alto, il capogruppo alla camera Graziano Delrio è preoccupato: «Non dobbiamo darci l’ambizione di sopravvivere ma quella di ripartire su basi più solide». Più solide, senza neanche i 161 voti al senato, cioè una maggioranza qualificata autosufficiente? Nel Pd l’ala sinistra non esclude ancora il voto anticipato, ma nei gruppi parlamentari si percepisce tutt’altra aria.

Il partito di Conte

L’altro rischio del Pd è restare schiacciato fra il protagonismo incontenibile – e, ormai è ufficiale, inemendabile - di Conte e l’eterna fibrillazione populista M5s. Ma su questo viene letto con un «elemento di chiarezza» la volontà del premier di riunire una sua area: i Cinquestelle presto dovranno scegliere, è la previsione dem, da che parte stare. Il ruolo di Conte evidentemente preoccupa il ministro Luigi Di Maio: «Se dobbiamo mettere insieme un governo posticcio o precario, meglio andare a votare».

Anche dal Colle si vede che andare avanti con pochi voti di maggioranza è arduo: ma è un tema politico, non istituzionale. Insomma, se anche Conte passerà il voto di martedì, la navigazione del suo governo non sarà più semplice di prima. Almeno finché non saprà mettere insieme una vera maggioranza politica e un’agenda di governo. Utile al paese in piena ripresa della pandemia e in vista di una crisi nera: dettaglio che, in queste ore di trattative non sempre commendevoli, è finito ferocemente sullo sfondo.

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