Quando il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, veniva ritratto al mare nel Salento, tutto era già successo, la situazione in Afghanistan era già precipitata.

Il ministro degli Esteri si è presentato ieri di fronte alle commissioni Esteri e Difesa del parlamento per riferire sulla crisi drammatica di Kabul e ne ha ripercorso tutti i passaggi, giorno per giorno. Il giorno chiave, ha detto il ministro, è il 13 agosto.

I Talebani avanzano nel paese, i contatti e le riunioni diplomatiche si moltiplicano: il 12 agosto, per la prima volta, gli americani evocano a Bruxelles lo scenario di una evacuazione di emergenza. Venerdì 13, dopo la presa di Herat, americani e britannici decidono di spostare i loro presìdi diplomatici all’aeroporto della capitale afghana, ma in questo modo non possono più garantire la sicurezza della Green zone di Kabul, di fatto costringendo anche le altre diplomazie all’evacuazione.

L’ambasciatore Sandalli scrive alla Farnesina annunciando «il ripiegamento delle ambasciate di Stati Uniti e Gran Bretagna».

Di Maio ha rifiutato di definirla una decisione unilaterale, in maniera però non proprio convincente: ha spiegato infatti che abbiamo avuto modo di esporre le criticità, ma ha anche ammesso che senza le tecnologie americane e britanniche, senza i controlli della Green zone, «non potevamo restare».

A questo punto la diplomazia e soprattutto l’esercito italiano, a cui spetta la gestione operativa dell’evacuazione, rivedono un piano per far uscire dal paese centinaia di collaboratori dislocati tra Herat, centro della nostra cooperazione oltre che del nostro contingente e Kabul, che era stato programmato in tre fasi e che sarebbe durato fino a settembre.

Bruciati i documenti

Il 14 agosto si prepara la fuga: vengono bruciati i documenti della nostra ambasciata a Kabul e vengono distrutte tutte le linee di comunicazione con Roma. Il 15 agosto l’Italia è nel manipolo di paesi, con Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Germania e Corea del Sud che riescono subito ad avviare i voli per l’evacuazione.

A oggi i ponti aerei hanno portato in Italia 2.659 afghani e evacuato in tutto oltre 3.740 persone, tra collaboratori e famiglie, persone a rischio per il loro ruolo di testimonianza in termini di diritti civili e diritti delle donne, giornalisti e altri profili segnalati da ong e associazioni religiose. Non basta, non riusciremo a evacuare tutti. «Correttamente, seriamente dobbiamo dirlo», ha detto Guerini. E non riusciranno a farlo i nostri partner europei. Ieri i ministri di Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna hanno ammesso uno dopo l’altro la stessa cosa: se non si rinvia la scadenza dovremo lasciarne indietro, intrappolati nel nuovo Afghanistan.

La svolta americana

La trappola dovrebbe chiudersi il 31 agosto, stando alla tabella di marcia statunitense. «Abbiamo una deadline fissata dagli americani», ha detto con tutta sincerità Guerini, «ma ci sono richieste di farla slittare». Il ministro tedesco Heiko Maas ha spiegato che gli alleati stanno negoziando con i Talebani. Non sarà facile.

Gli americani dovevano andarsene a maggio, hanno già rinviato e da allora sono cominciati gli attacchi mirati. Ma questo orientamento è stata una scelta ben precisa. Guerini, pur ringraziando gli alleati statunitensi, soprattutto per il sostegno fornito all’Italia nel momento dell’evacuazione, ha ricordato molto chiaramente come l’approccio di Washington sia cambiato. Prima il disimpegno era legato alle condizioni sul campo, poi è diventata solo una questione di date. Nei termini freddi della strategia si dice passare da un approccio conditions-based a uno time-based. Nei termini caldi della quotidianità significa andarsene succeda quel che succeda.

Salvo nuovi accordi, per settembre i diplomatici occidentali dovrebbero tutti lasciare il paese. Anche per questo Di Maio ha rivendicato la scelta di aver subito rimpatriato l’ambasciatore Vittorio Sandalli, lasciando all’aeroporto, invece, il giovane responsabile delle attività consolari, Tommaso Claudi.

Una scelta che di Maio ha rivendicato solo ieri: «L’ambasciatore era disponibile a restare, ma abbiamo fatto una scelta operativa». La Farnesina ha valutato che fosse meglio che stesse a Roma presso l’unità di crisi, mentre a Kabul, a fianco del personale militare e di intelligence, bastava una persona a controllare le liste di evacuazione. Anche lui, oggi chiamato da tutti comprensibilmente eroe, è destinato a partire. I paesi Ue devono ancora decidere se mantenere una presenza diplomatica, per il momento la priorità è prendere le misure della nuova leadership e evitare ci siano corse al riconoscimento del governo talebano all’interno del G20.

Le liste dei corridoi umanitari

In queste condizioni anche organizzare corridoi umanitari diretti vorrebbe dire mettere nelle mani dei Talebani la lista delle persone da evacuare, ha avvertito il responsabile della Farnesina. Una ipotesi sarebbe appoggiarsi ai paesi confinanti. Secondo Guerini «quello che è successo non può mettere in discussione il lavoro fatto», cioè 20mila militari afghani addestrati dall’esercito italiano, eppure ha riconosciuto che quella dell’esercito afghano ai Talebani come «una resa incondizionata».

Il risultato di una serie di elementi, la corruzione, criticità logistiche ma anche e soprattutto, secondo il responsabile della difesa, la mancanza di una comunanza di valori culturali e sociali. Siamo dunque ancora alla frattura tra operazione militare e opera di nation building, che però diventa una faglia interna alla Alleanza atlantica e anche all’Unione europea. La prima non è una agenzia di sviluppo, la seconda è priva di capacità di militare adeguata. In mezzo c’è il disastro in Afghanistan.

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