L’ultimo in ordine di tempo a rendere pubbliche le ragioni per cui voterà No al referendum costituzionale del 20 e 21 settembre è stato il primo segretario del Pd Walter Veltroni. Una posizione inaspettata per un esponente politico non contrario, in sé alla riduzione dei parlamentari, ma motivata con l’assenza di una riforma più organica: «Io penso che non si possa fare un taglio dei parlamentari senza una riforma complessiva perché se si tocca Parlamento, bisogna farlo tenendo conto degli equilibri necessari», ha spiegato a La7. Prima di lui era già arrivato il No di una processione di fondatori di padri e madri costituenti del Partito democratico, fra l’ex premier Romano Prodi, il suo ex braccio destro Arturo Parisi, l’ex presidente del partito Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti, Sergio Cofferati. Pareri che pesano, di dirigenti storici e autorevoli che a vario titolo sono stati vicini al segretario del Pd Nicola Zingaretti e che difficilmente possono essere accusati di ostilità al governo in alleanza con i 5 stelle, per averlo in molti casi favorito e auspicato. E infatti proprio Veltroni spiega che «Se quello di domenica fosse un voto sul governo, voterei a favore».

 Ai vertici del Pd però non l’hanno presa bene. A rispondere a Veltroni è stato il suo antico sodale e maestro Goffredo Bettini: «Noi siamo storicamente per la riduzione dei parlamentari», gli ha ricordato pur sorvegliando i toni.  Nicola Zingaretti non ha commentato. In queste ore ha deciso di concentrarsi sulle regionali. Ieri era in Toscana, stasera chiuderà la campagna elettorale nelle Marche a Macerata a fianco del candidato Maurizio Mangialardi. Dal risultato delle regionali dipende la sua segreteria. Il congresso è giù convocato, solo la pandemia ne ha rimandato la data. La sua linea del Piave passa per la tenuta della Toscana. Meglio, molto meglio, alla vigilia dell’appuntamento, evitare le polemiche fra Si e No. Meglio non fomentare divisioni e frizioni nel gruppo dirigente e nel popolo dem (alla festa nazionale di Modena molti erano i volontari che dichiaravano il loro No,  ormai di territori i no arrivano a grappoli).

 Ma è verosimile che Veltroni, Prodi, Bindi e gli altri, dirigenti rispettabili e fin qui considerati ‘amici’ da Zingaretti, stiano tutti dando una mano agli attacchi al governo, come sostiene l’analisi corrente nel Pd? E magari a propria insaputa o con colpevole malizia siano tutti «ispirati anche da centri economici e dell'informazione» (copyright Andrea Orlando) che hanno come obiettivo la caduta dell’esecutivo e la riorganizzazione della sua maggioranza? Sembra difficile.

Alla vigilia delle elezioni un innalzamento della temperatura della campagna elettorale è scontato, persino fisiologico. Eppure in queste ore in casa 5 stelle si producono fenomeni che vanno un po’ troppo al di là della fisiologia. Le parole di Beppe Grillo, che pure in questi mesi ha aiutato a far digerire il governo Conte ai più riottosi dei suoi, hanno fatto appello al vecchio orgoglio antipolitico dei primi meet up: «Sento che in Parlamento si parla solo di nomine, queste cose qui non le concepisco. Non è più destra o sinistra, ma andare avanti. Abbiamo tutti la possibilità di fare uno scatto in avanti meraviglioso sull’energia, sui flussi migratori», ha detto tre giorni fa in collegamento con una conferenza stampa al senato, e la conclusione: «È paradossale che funzionino più le dittature delle democrazie. Siamo bloccati su stronzate gigantesche». Le pubblicità per il sì commissionate dal movimento - con le facce di Matteo Salvini o con le forbici sulle poltrone di velluto rosso - hanno riesumato il vecchio primigenio e primitivo antiparlamentarismo.

Ma sollevare il morale nei territori è più complicato. Nelle regioni al voto, ovunque tranne in Puglia, che è un caso a parte, si segnala una mancanza di presenza degli attivisti al di sopra del limite di guardia. E’ nella maggior parte dei casi l’effetto di un gruppo dirigente ormai diviso e sfilacciato, appostato nelle diverse trincee delle molteplici bande politiche - ben oltre la linea delle ex vituperate ‘correnti’ dei partiti della Prima Repubblica - in attesa della resa dei conti dei futuri e promessi Stati generali. I conflitti ormai finalmente aperti e pubblici fra Davide Casaleggio e la piattaforma Rousseau da una parte e molti parlamentari dall’altra sono solo una delle dimostrazioni del clima interno. Ne discende un corpo militante confuso e allo sbando.

In Liguria, l’unica sfida in cui Pd e 5stelle sostengono lo stesso candidato Ferruccio Sansa, sono sfilati i ministri dem. Ma non quelli 5stelle. E non si è visto neanche Beppe Grillo che di Sansa (schierato con il No) è persino vicino di casa. Notizie dello stesso segno arrivano da altri territori. In Toscana il ministro Luigi Di Maio è andato, ma per fare campagna per il Sì al referendum. E in quella terra contesa, con una parte dell’elettorato di sinistra schierato per il No a partire dal presidente uscente Enrico Rossi, i suoi decibel a favore del taglio dei parlamentato possono fatalmente mettere in difficoltà il già affaticato candidato Eugenio Giani, allineato con il Sì.

Diverso il caso della Puglia. Lì la candidata 5s Alessandra Larizza ha preferito lo scontro diretto con il presidente uscente Michele Emiliano. E domani alla chiusura della sua campagna elettorale ha convinto Alessandro Di Battista a salire sul palco con lei. Le parole che pronuncerà l’ex deputato preoccupano Di Maio. Ma impensieriscono anche il premier Giuseppe Conte che ha saggiamente scelto di non infilarsi nel ginepraio delle sfide regionali tutte interne alla sua maggioranza. In Puglia in gioco c’è la manciata di voti che può fare la differenza per il candidato dem, che lì  deve fare i conti con la corsa del candidato renziano Ivan Scalfarotto. Una corsa di disturbo, per un partito nato un anno fa e mai decollato.

Il movimento non si aspetta nulla di buono dalle regionali. Anzi all’orizzonte, ormai vicinissimo, c’è un risultato che potrebbe non acciuffare più le due cifre. Solo un’affermazione poderosa e maggioritaria del Sì può restituire fiato e forza al M5s che resta partito di maggioranza del governo ma rischia di vedere la sua forza indebolita al tavolo dei progetti sul Recovery fund, a quello di un eventuale rimpasto di governo e a quelli di tutti i troppi dossier ancora  aperti  (ex Ilva, Alitalia, Atlantia e ancora Tim, per non parlare dei delicati eventuali correttivi al taglio dei parlamentari).

Per questo il partito di Zingaretti non riesce a rendersene conto, ma c’è un No che non solo non mira a far saltare il governo – da cui in queste ore si moltiplicano ale assicurazioni di stabilità a prescindere dal risultato, come un mantra beneaugurante – ma al contrario può dare una mano proprio al Pd del dopo voto, per bilanciare un 5stelle ringalluzzito da un’affermazione fuori scala del Sì, un successo di cui rivendicare il merito esclusivo.

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