La crisi non c’è, dopo meno di una giornata è già in via di risoluzione. Nel pomeriggio uno scambio di dichiarazioni a distanza fra Mario Draghi e Matteo Salvini ricuce, all’apparenza, lo strappo del leader della Lega, che in mattinata, a proposito della “ricognizione” del catasto, attacca: «Questa è una patrimoniale su un bene già tassato». E sentenzia: «La Lega ha dato fiducia a Draghi per non alzare le tasse».

Il premier rassicura: la riforma «non è una patrimoniale» e il governo «non toccherà le case degli italiani». Quanto alle tasse: «Ho detto fin dal mio insediamento che non avrei aumentato le tasse: sono passati molti mesi e non le abbiamo aumentate nonostante ci siano state molte richieste di farlo. Abbiamo detto a tutti di no e un po’ di credibilità l’abbiamo acquisita».

Dalla Lega non si aspettava altro che questo segnale. Così filtrano frettolosi apprezzamenti, ovvero sospiri di scampato pericolo: «Bene Draghi contro patrimoniale e nuove tasse sulla casa, adesso il parlamento in aula tolga ogni accenno a riforma del catasto che preluda a nuove tasse sulla casa». Salvini è solo, così solo che i presidenti di regione leghisti concordano una dichiarazione congiunta per “spalleggiare” le richieste del leader e insieme scongiurare tentazioni balzane.

La crisi non c’è? Lo assicurano tutti quelli che si trovano bon gré mal gré ad avere una parte nell’ultima messinscena del leader del Carroccio, in cui però rischia di farsi male solo lui. La prima era stata ad aprile, l’astensione del decreto riaperture; poi c’erano state le due fiducie sul decreto green pass.

Salvini ringhia: «La Lega è dentro il governo. Se vogliono, escano Letta e Conte». La crisi non c’è neanche per Draghi. A palazzo Chigi nessuno ha preso sul serio i capricci di Salvini e infatti il premier per due volte ha detto che l’esecutivo non cambia la sua tabella di marcia: «Il governo va avanti, la sua azione non può seguire il calendario elettorale, ciò che dobbiamo seguire è il calendario negoziato con la Commissione europea per il piano nazionale di ripresa e resilienza, e poi ci sono le raccomandazioni della Commissione all’Italia». La crisi «è fuffa» per Matteo Renzi, che ha un certo know-how in materia. E non c’è neanche per Enrico Letta.

Un “bugiardo” al Quirinale?

Il segretario del Pd uscito vittorioso dal primo turno delle amministrative imposta un discorso secondo cui è vero che in prospettiva l’uscita dal governo della Lega sarebbe salutare per il Pd. Il punto però, spiega la dirigenza del partito, «è che nell’immediato non è nel nostro interesse che la Lega vada all’opposizione. Primo, perché la stabilità del governo e dunque del paese è un valore in sé. Secondo perché paradossalmente più Salvini resta a bordo più si indebolisce. Il gioco del poliziotto buono e cattivo con Giorgetti lo sta prosciugando. E sta screditando entrambi». E la turbolenza sulla riforma fiscale per il segretario è solo «un fumogeno lanciato per distrarre dal tracollo del Carroccio». Lo strappo di Salvini «è un problema di Draghi. Salvini dice che Draghi mente. Può essere affidabile un alleato che dice che il presidente del Consiglio mente?».

«A noi l’impianto della riforma sta bene. Sulla graduale eliminazione dell’Irap e sulla riforma delle aliquote può la Lega smarcarsi?», dicono dal Nazareno. Del Quirinale il segretario non parla, ma fra i suoi circola una battuta: «Salvini dà del bugiardo a Draghi. Voterebbe un bugiardo al Quirinale?». Domanda retorica. Anche per Letta, che chiede una «moratoria» sul tema del nuovo capo dello stato ma preferisce un Draghi a palazzo Chigi fino al 2023. L’ultima mossa di Salvini peraltro assottiglia i voti potenziali per l’ex presidente Bce. Ma del resto anche il ministro Giancarlo Giorgetti, nella sua intervista del 27 settembre alla Stampa in cui sembrava candidare Draghi al Quirinale aveva aggiunto un avviso: senza di lui a palazzo Chigi «i soldi europei li butteranno via o non sapranno come spenderli». Giorgetti non è nuovo nel campo delle previsioni dei disastro. Nel maggio nel 2019 volle tenere una conferenza alla sala stampa estera per lanciare un grido di allarme per l’allora governo gialloverde che viveva qualche turbolenza. Di lì a meno di tre mesi, il 4 agosto, ci fu il festone in spiaggia al Papeete, a Milano Marittima. Poi il 7 agosto 2019 Salvini annunciò che nel governo «qualcosa si è rotto». Poi il diluvio.

Maggioranza blindata

La pistola della crisi allora fece cilecca, di lì a poco nacque il governo giallorosso. Stavolta Salvini non può neanche agitarla: i numeri della maggioranza sono a prova di mojito. Se dovessero sfilarsi i 133 deputati, resterebbero poco meno di 400 voti sicuri per Draghi. E a palazzo senza i 64 leghisti la maggioranza resterebbe solida, intorno a 186 voti. Potrebbe mettersi all’opposizione, ma in quel caso la crisi esploderebbe dentro la Lega. «Non credo che Salvini voglia uscire dal governo a febbraio», spiega il sottosegretario Gianmarco Centinaio all’Huffington Post, «rispetterà gli accordi presi con Draghi e con Mattarella che prevedono il rilancio economico del paese anche dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica». Quanto al voto anticipato, altra arma spuntata, ammette: «Se anche Salvini e Meloni coltivassero la tentazione, con il taglio delle camere i parlamentari piuttosto voterebbero premier mia nonna».

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