«I decreti propaganda/Salvini non ci sono più», ha annunciato su Twitter il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, appena il Consiglio dei ministri, nella tarda serata del 5 ottobre, ha approvato le modifiche ai provvedimenti introdotti dal governo precedente. Ma l’impostazione voluta da Matteo Salvini quando era ministro dell’Interno non viene “smontata”, cioè non si ripristina la situazione precedente ai due decreti.

Il termine per il riconoscimento della cittadinanza italiana – raddoppiato da Salvini a 48 mesi - non torna quello previgente, cioè 730 giorni, ma è portato a 36 mesi. Il compromesso a “metà strada” è immotivato, così come lo era stato il raddoppio della durata del procedimento a opera del primo decreto Sicurezza.  Né sembra sia eliminata la norma ai sensi della quale, per il rilascio degli atti di stato civile per il riconoscimento della cittadinanza, servono sei mesi: si tratta di documenti che gli italiani normalmente ottengono a vista.

Entrambe le disposizioni paiono improntate a una sorta di “burocrazia dissuasiva” - tesa a creare ostacoli a chi voglia divenire cittadino italiano - e dimostrano che con il nuovo decreto non si è avuto il coraggio di fare la retromarcia necessaria.

Urgente ma non troppo

La norma sulla cittadinanza mostra un altro profilo singolare: si applica alle domande “presentate dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. In altre parole, il termine di 36 mesi sarà valido non dal decreto-legge, bensì dalla sua conversione. Ma rimandare l’operatività della disposizione di un decreto urgente pare un controsenso.

Sempre in tema di “compromesso” di cui non si comprende la ratio, la permanenza nei centri di rimpatrio, portata da Salvini a 180 giorni, dai 90 prima previsti, ora viene fissata a 120 giorni.

E, ancora, non c’è il ritorno alla protezione per motivi umanitari, la cui eliminazione a opera del primo decreto Sicurezza aveva prodotto un rilevante aumento del numero di immigrati irregolari. Invece, vengono ampliati i casi di permessi per “protezione speciale”, ricomprendendo altre situazioni di necessità.

Se, da un lato, ciò consentirà di riportare nella legalità coloro i quali sarebbero stati sprovvisti di un titolo giuridico per restare in Italia, dall’altro lato, dettagliare ulteriormente in via legislativa le diverse situazioni, anziché tornare alla preesistente “clausola aperta” di protezione umanitaria, rischia di incrementare il contenzioso per i casi dubbi.

Tornano gli invisibili

Si elimina il divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo. La modifica discende dalla pronuncia con cui la Consulta ne aveva dichiarato l’incostituzionalità, sottolineandone la “irrazionalità intrinseca” rispetto al “perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza”: la mancanza di iscrizione rendeva “invisibili” i richiedenti asilo, impedendo un reale controllo sul territorio e così realizzando paradossalmente un risultato opposto alla “sicurezza”.

Inoltre, la Consulta aveva rilevato in tale disposizione una disparità di trattamento, poiché essa rendeva «ingiustamente più difficile ai richiedenti asilo l'accesso ai servizi ad essi garantiti» (dall’avere un medico di base al prendere la patente all’aprire un conto in banca, spesso condizione per lavorare, cioè per il versamento dello stipendio).

Il sistema di «protezione» diviene di «accoglienza e integrazione». Prima del primo decreto Salvini, i richiedenti asilo, dopo la “prima accoglienza” nei CAS - per l'identificazione, l'avvio della procedura di esame della domanda di asilo ecc. - erano destinati alla “seconda accoglienza”, formata dalla rete degli Sprar, per lo svolgimento di progetti proposti da enti locali, finalizzati all’integrazione.

Il primo decreto Sicurezza aveva escluso i richiedenti asilo dall’accoglienza negli Sprar (ora Siproimi), riservandola solo a titolari di protezione internazionale e di permessi “speciali”, nonché ai minori non accompagnati. Col nuovo decreto torna l’accoglienza anche per i richiedenti asilo, ma la norma lascia intendere che ciò non sia automatico: gli enti locali «possono» accogliere solo «nei limiti dei posti disponibili anche i richiedenti protezione internazionale e i titolari dei permessi» speciali.

Resta la Bossi-Fini

Il nuovo decreto amplia le ipotesi di convertibilità in permessi di lavoro dei permessi di soggiorno rilasciati per altri motivi, e questo è un passaggio importante per dare più pieno riconoscimento alla situazione di chi, stando in Italia per diverse ragioni, trovi anche un’occupazione.

Tuttavia, a questo proposito, ancora una volta si rinuncia a mettere mano alla legge Bossi-Fini, la normativa che, tra l’altro, subordina l’ingresso e la permanenza in Italia al contratto di lavoro.

Rimane il potere di “limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale” (ad esclusione delle navi militari), ma passa dal ministro dell’Interno a quello delle Infrastrutture, “su proposta del Ministro dell’interno di concerto con il ministro della Difesa e previa informazione al presidente del Consiglio”, e può essere esercitato solo in determinati casi (operazioni non “immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera” e non “effettuate nel rispetto delle indicazioni della competente autorità”). Viene recepito il rilievo del presidente della Repubblica al secondo decreto Salvini: le sanzioni per la violazione del divieto (ora da 150 mila euro a un milione) tornano all’entità indicata dal decreto-legge prima della conversione (da 10 mila a 50 mila euro).

Pertanto, da un lato, permane il potere interdittivo verso le navi di soccorso nei casi previsti, dall’altro lato, restano le multe nei loro riguardi. In altre parole, resiste la norma-simbolo del secondo decreto Sicurezza, e con essa l’atteggiamento di “sospetto” del legislatore nei riguardi delle navi delle Ong.

L’impostazione salviniana, dunque, non viene smontata. D’altronde, Giuseppe Conte che, in qualità di presidente del Consiglio precedente, aveva esaltato i due decreti – il primo addirittura con apposito cartello “pubblicitario” – poteva forse rinnegare se stesso come presidente del Consiglio attuale?

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