La questione della “maternità surrogata” che è più corretto chiamare “gestazione per altri” è una questione complessa e, come spesso accade, il dibattito pubblico, fortemente polarizzato, non rende giustizia alla complessità della questione. Per come viene praticata in molti paesi, si tratta di una pratica che comporta rischi elevati di sfruttamento della gestante e violazione della sua dignità umana. Poco importa che spesso in quei paesi qualsiasi attività lavorativa comporti gli stessi rischi.

Anche nei paesi in cui la gestazione per altri viene praticata in condizioni migliori, ad esempio in alcuni stati degli Stati Uniti, il quadro giuridico che la regola è discutibile, nella misura in cui subordina la tutela della libertà e degli interessi della gestante agli interessi della committenza.

Il riconoscimento di quelle criticità, lungi dall’essere una valida ragione per inasprire la normativa italiana in materia, che qualifica la pratica come un reato e la sanziona penalmente, è un’ottima ragione per rivedere tale normativa in senso permissivo, mostrando al tempo stesso che è possibile regolare la pratica in modo da rispettare tutti i soggetti coinvolti.

È una questione di responsabilità internazionale: finché in Italia la pratica sarà punita, i cittadini italiani, quelli che se lo possono permettere, cercheranno il modo di ricorrervi nei paesi che la consentono, spesso in condizioni discutibili. L’idea che si possa fare della pratica un reato “universale” è pura propaganda: chi la propone sa bene come ciò non sia realizzabile.

Ciò che è possibile, invece, è dimostrare che una giusta disciplina della pratica, una disciplina che tuteli la dignità e gli interessi della gestante, oltre agli interessi della committenza, è possibile. Adottandola, l’Italia potrebbe dare un esempio. Cosa ancora più importante, facendolo, offrirebbe un’alternativa eticamente sostenibile alle opzioni che offre il mercato.

Il punto di partenza di un tentativo di regolare la pratica dovrebbe essere l’idea che non è possibile attribuire alle persone un diritto a divenire genitore, tanto meno attraverso il ricorso alla gestazione per altri. Ciò che può essere attribuito alle persone – ed è attribuito loro nella forma del diritto fondamentale di fondare una famiglia – è il diritto-libertà di provare a divenire genitore in modi compatibili con il rispetto delle altre persone.

Ogni limitazione di tale diritto-libertà deve essere giustificata come necessaria a tutelare gli interessi e la dignità di persone divere dai titolari di quel diritto-libertà. Un discorso analogo può essere fatto con riferimento al diritto-libertà delle persone di disporre del proprio corpo, anch’esso chiaramente in gioco nella gestazione per altri, con l’aggravante che la limitazione di tale diritto-libertà nel supposto interesse dei suoi titolari richiede una giustificazione ancora più stringente, perché nega paternalisticamente loro la possibilità di decidere da sé cosa sia nel proprio miglior interesse.

Il divieto della gestazione per altri in qualsiasi forma può essere giustificato solo sostenendo che non vi è modo di permettere il ricorso a quella pratica in modi che tutelino la dignità e gli interessi di tutti i soggetti che essa coinvolge. Io non credo che sia così. Penso, al contrario, che una regolazione della pratica rispettosa della dignità e degli interessi della gestante sia possibile.

A mio parere una giusta disciplina della pratica dovrebbe prevedere tra l’altro:

  • Il diritto della gestante al ripensamento e la facoltà di riconoscere il nato come proprio figlio alla nascita o nel periodo immediatamente successivo, a prescindere dall’esistenza di un suo legame genetico con il nato. Ciò, senza alcun obbligo di risarcire la committenza, ma anche senza obblighi di mantenimento in capo a quest’ultima.
  • La piena libertà della gestante durante la gravidanza, che non dovrebbe essere in alcun modo tenuta a rispondere alla committenza per la sua condotta, ivi compresi il rifiuto di sottoporsi ad accertamenti medici e la decisione di interrompere la gravidanza entro i limiti previsti dalla legge.
  • Che nessun soggetto diverso dalla gestante possa trarre profitto dalla pratica, cosa che comporta che l’intermediazione dovrebbe essere affidata a soggetti pubblici ai quali competerebbe anche il compito di garantire che la pratica si svolga nel più rigoroso rispetto delle norme antidiscriminatorie, scongiurando derive eugenetiche.

Autonomia del soggetto

A questa proposta di regolazione potrebbero essere mosse due obiezioni. Si potrebbe, innanzitutto, obiettare che essa non tratta la gestante come un soggetto pienamente autonomo, vietandole di stipulare un contratto che non includa il diritto al ripensamento e/o con il quale essa rinunci ad alcune delle proprie libertà.

A questa obiezione è facile rispondere che se prevedere per la gestante un diritto indisponibile al ripensamento significasse trattarla come uno soggetto non pienamente autonomo, lo stesso si potrebbe dire di due persone che contraggano matrimonio: perché non prevedere che esse possano rinunciare alla libertà di divorziare?

La nostra esistenza è un’esistenza temporalmente estesa. Cambiare opinione rispetto a qualcosa, rivedere i propri piani di vita, non è solo possibile, ma è qualcosa di cui la maggior parte di noi ha fatto certamente esperienza nell’arco della propria vita.

Certe esperienze particolarmente significative possono più facilmente portare a simili ripensamenti. E pur non avendo mai avuto l’esperienza di una gravidanza, né potendo averla, tendo a pensare che quella possa essere una di quelle esperienze.

Il diritto al ripensamento non nega la piena autonomia della gestante, semmai la preserva. E ciò vale anche per le altre libertà che la mia proposta ritiene debbano essere garantite.

Gli interessi dei genitori

La seconda prevedibile obiezione è quella per cui la disciplina proposta non terrebbe nella dovuta considerazione gli interessi della committenza, il suo diritto a realizzare il proprio progetto genitoriale, subordinandoli a quelli della gestante.

A questa obiezione rispondo che è chiedere troppo al diritto e alle nuove possibilità offerte dalla tecnica, chiedere loro di preservarci da certi rischi che il fatto di dover dipendere da altre persone per la realizzazione dei nostri progetti di vita inevitabilmente comporta. Si immagini una coppia che decida di costituire una famiglia e di fare un figlio – attraverso un atto sessuale, non ricorrendo alla gestazione per altre – immaginando di crescerlo insieme.

Nato il figlio, uno dei due membri della coppia ha un ripensamento, si rende conto che non si riconosce più nel progetto di vita comune con il partner e che vuole trasferirsi in un paese lontano, se possibile portando con sé il figlio. Il partner si troverà, suo malgrado, a dover subire tale decisione, costretto a rinunciare al proprio progetto di vita, che prevedeva di crescere il figlio insieme all’altra persona. È molto triste. Drammatico. Ma capita.

E il diritto non può garantirci contro tale evenienza senza limitare in maniera inaccettabile la libertà delle persone di rivedere i propri progetti. Chi decide di avere un figlio si affida a un’altra persona, che il figlio venga concepito con un atto sessuale o grazie alla tecnica.

Deve accettare i rischi che farlo comporta. Negare alla gestante il diritto al ripensamento, significa non riconoscerla come una persona, la cui volontà non può essere subordinata a quella della committenza. Diversamente, sì, la gestante verrebbe ridotta a un’incubatrice. E ciò è inaccettabile.  

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