Per un guaio che il premier riesce a sminare la mattina ce n’è un altro che si delinea all’orizzonte il pomeriggio. Ieri il presidente Mario Draghi è riuscito a governare, almeno temporaneamente, i dissensi di grillini, leghisti e Forza Italia sulla linea del suo governo sulla guerra in Ucraina. Ma poi ha avvisato la destra di governo che il ddl Concorrenza, piantato in commissione Industria al Senato, deve essere approvato entro fine mese. «Il mancato rispetto di questa tempistica», ha detto senza giri di parole in un Consiglio dei ministri convocato a sorpresa e d’urgenza, «metterebbe a rischio, insostenibilmente, il raggiungimento di un obiettivo fondamentale del Pnrr, punto principale del programma di governo». Non è un avviso di dimissioni, ma certo un segnale di stanchezza e arrabbiatura, forse il più importante dall’inizio del suo mandato.

Le tensioni nei due schieramenti ormai si abbattono quotidianamente sui programmi del governo. Il clima da campagna elettorale in vista delle amministrative del 12 giugno non aiuta, e rischia di durare fino ai ballottaggi, e cioè a fine mese. Provocando strappetti quotidiani. Ieri stesso, per fare un altro esempio, in commissione Bilancio della Camera è approdato il decreto Energia, che contiene, tra le altre cose, i poteri di commissario straordinario per il Giubileo che consentiranno al sindaco di Roma di costruire un inceneritore in deroga al piano regionale del Lazio. Fin qui i grillini minacciano sfracelli. In Transatlantico nessuno crede che facciano sul serio. Né loro né la Lega, né Silvio Berlusconi che ha attaccato Draghi sulla conduzione della vicenda ucraina, salvo poi mandare avanti i suoi a ricucire. Ma il clima è teso.

Tregua sulla guerra

Di mattina, durante l’informativa in parlamento, il premier fa quello che può per cercare uno straccio di pace. Non solo nella serissima e drammatica guerra fra la Russia e l’Ucraina ma anche fra i litiganti assai meno seri della sua maggioranza. In aula Draghi calca i toni sulle iniziative umanitarie italiane, e quasi non parla della questione dell’invio di armi a Kiev che sa essere un punto delicato per la tenuta interna dei parlamentari. Insiste sul filo di speranza diplomatica teso negli scorsi giorni: adesso «occorre raggiungere il prima possibile un cessate il fuoco e far ripartire con forza i negoziati», il colloquio del capo del Pentagono con il ministro della Difesa russo, avvenuto all’indomani della sua visita a Washington, dice, «è un segnale incoraggiante». Da parte sua, il principale partito della sua maggioranza, ovvero i Cinque stelle, che chiede di votare un nuovo «mandato politico» al governo sulla nuova fase della guerra, abbassa i toni come può, cercando di non perdere troppo la faccia. Lo scontro, se scontro davvero ci sarà, è rimandato alla prossima settimana.

La mattinata finisce così, e cioè con una tregua interna. Draghi non fa passi indietro, anzi ribadisce che il governo è autorizzato ad andare avanti dal voto del primo marzo e intende «continuare a muoversi nel solco della risoluzione approvata dal Parlamento», invio di armi compreso. In quell’occasione del resto hanno votato sì anche i Cinque stelle. Dunque alla senatrice grillina Mariolina Castellone non resta che ammettere che quel loro voto era convinto, «adesso però dobbiamo insieme costruire la fase due», dunque «il presidente torni in aula per avere un mandato forte e trasversale». Sarà un voto che «non mira a indebolire il governo», giura a Montecitorio Davide Crippa, tendenza Di Maio (il ministro degli Esteri parlotta spesso con il premier, classico segnale per ostentare la sua vicinanza) perché «il confronto parlamentare non è un ostacolo o un impedimento per il governo» ma anzi «ne vuole rafforzare e consolidare la linea politica e di indirizzo».

Conte ancora minaccia

In realtà non è così. Per lo meno non la pensa così Giuseppe Conte che attacca proprio mentre Draghi parla a Montecitorio: «Per quanto riguarda l’invio delle armi, la nostra posizione è nota: abbiamo già dato». L’occasione per cambiare voto saranno le comunicazioni del premier alla vigilia del Consiglio europeo straordinario del 24 marzo. I Cinque stelle potrebbero scegliere astensione o no. In entrambi i casi la crisi di governo a quel punto sarebbe nelle cose. Ma anche l’implosione dei Cinque stelle. Eppure ieri in Transatlantico era facile capire che la maggioranza dei grillini non ha voglia di barricate, cioè non ha voglia di elezioni anticipate. Presto entreranno in azione i pontieri, per inventarsi la formula da inserire nella risoluzione della prossima settimana.

Certo Castellone non rinuncia a prendersela con una «maggioranza trasversale che non sempre si dimostra corretta». Si riferisce allo sgambetto ricevuto in commissione esteri dove il centrodestra, con un aiutino, ha eletto Stefania Craxi al posto di Ettore Licheri. Conte ha provato a scaricare su palazzo Chigi le papere dei suoi parlamentari, scatenando gli sfottò da destra e il silenzio imbarazzato del Pd. Di maggioranza «arlecchina e zeppa di contraddizioni e di ambiguità», parla Giorgia Meloni, che giudica «sensata» invece la politica di Draghi. Ce l’ha con i Cinque stelle, ma anche con l’alleato Matteo Salvini, che a sua volta ringrazia il premier «per le parole di pace» ma «la pace va costruita» e all’indirizzo di Fratelli d’Italia replica un «a chi rinnova l’invito a inviare altre armi e dice che al massimo gli operai italiani tireranno la cinghia rispondo che io non ci sto». Al senato Licia Ronzulli, vicinissima a Berlusconi, corregge il tiro del vecchio leader e elogia Draghi.

Ultima spiaggia

La zuffa sulla guerra è rimandata. Ma il premier resta molto preoccupato – è un eufemismo – per tutte le altre riforme necessarie al Pnrr che stentano ad arrivare a meta. Innanzitutto quella sulla concorrenza, oggetto di un infinito tira e molla. Il testo è ancora al Senato in commissione Industria, impantanato sull’articolo 2, quello sulle concessioni ai balneari. Palazzo Chigi ha fatto una riunione con le destre, ma la riforma non si è sbloccata. L’accordo non c’è. O meglio il ministro del lavoro Andrea Orlando parla «di un intesa raggiunta che tiene conto dei punti di vista delle categorie». Invece Lega e Forza Italia chiedono di stralciare l’articolo. Ma la sentenza della Consulta prevede la scadenza delle concessioni a fine 2023, il tempo per una nuova norma è poco.

Nel pomeriggio viene convocato d’urgenza un Consiglio dei ministri. Draghi è perentorio: «Il ddl concorrenza deve essere approvato entro maggio, se serve anche con un voto di fiducia». Fonti di governo spiegano che il tempo stringe: sulla base degli impegni assunti con il Pnr, entro dicembre 2022 è necessario approvare la legge delega e i relativi decreti. Il Pd è d’accordo: «Draghi ha ragione da vendere, è folle bloccare il Pnrr per difendere interessi particolari e rendite di posizione. La fiducia sul ddl concorrenza mette ognuno di fronte alle sue responsabilità», secondo il senatore Antonio Misiani. Italia viva la pensa allo stesso modo. Martedì in commissione si tenterà l’ultima mediazione oppure il governo chiederà la fiducia sul testo originario, che le destre considerano irricevibile.

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