«Il Pnrr è uno sgocciolio di risorse. Dà un po’ a tutti. Ma è un’idea vecchia. Se uno dovesse dire tre cose che il piano dovrà cambiare nella nostra vita non sapremmo rispondere». L’ex ministro Fabrizio Barca, economista e statistico, ragiona di «Disuguaglianze conflitto sviluppo» in un libro-dialogo con Fulvio Lorefice, edito da Donzelli. E qui va anche un po’ oltre.

Iniziamo dalla fine. Il ministro Giorgetti propone un presidenzialismo di fatto, con una proposta di una riforma costituzionale di fatto senza passare dalle procedure parlamentari. Parole pesanti dette con leggerezza, da un ministro politico verso un premier tecnico?

Se devo dire la verità, la proposta non mi ha sorpreso. Sorprende, certo, la leggerezza, la scivolata del modo, ma il ministro Giorgetti ha detto una cosa che era nell’aria, l’idea di una sovrapposizione delle figure di presidente della Repubblica e presidente del Consiglio. Un balletto di domande retoriche su dove serve di più il supertecnico.

Era evidente che la risposta sarebbe stata: “serve averlo in entrambi i ruoli”. Giorgetti ha dato corpo a un’idea che circolava, in modo leggero, oppure sfrontato. Anche la fine dell’ipocrisia è pericolosa per la democrazia. Certe cose, quando si proclamano, cominciano ad accadere. A meno che non ci sia una reazione forte contro un’ipotesi gravissima, come questa.

Non c’è stata. È il destino dell’Italia, quello dei governi tecnici? Ed è iniziato dal governo di cui ha fatto parte, quello di Mario Monti?

L’arretramento della politica, l’adozione all’italiana della tesi neoliberista che tanto non c’è alternativa, servono i tecnici perché l’alternativa non c’è, è andata crescendo. Quando dico “all’italiana” è perché da noi è in corso un’interpretazione parossistica dell’abdicazione della politica verso la tecnica. Il vulcano da sotto terra non esplode con il governo Monti, ma con il governo Draghi.

I “governi tecnici” di Lamberto Dini e Carlo Azeglio Ciampi avevano un chiaro mandato dei partiti e gli stessi tecnici alla guida avevano aderito a una parte della politica. E il governo Monti attuava un programma politico descritto in sette pagine che contenevano delle indicazioni fin nel dettaglio.

Ogni singola iniziativa era l’attuazione di un mandato politico, benché affidato a un tecnico. L’enorme novità del governo Draghi è l’assenza di un mandato politico che si riverbera nella sua dichiarazione alle camere, priva di qualsiasi indicazione strategica.

Fare uscire il paese dalla pandemia e rilanciare l’economia non sono un mandato politico?

No, sono due titoli. La pandemia è stata imposta dalla storia, l’attuazione del Piano nazionale di ripresa è un’opportunità offerta dall’Europa. Il mandato è come si svolgono questi due titoli. Sulla pandemia il governo Draghi non cambia una virgola dell’impostazione, giusta, del governo precedente. Il modo in cui il governo sta svolgendo il tema Pnrr non è frutto di alcuna priorità strategica.

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Un Pnrr senza una strategia, sarà un flop?

Lo vedremo fra qualche anno. Ma metterla così è il modo per massacrare ogni tentativo di analisi equilibrata. I titoli del Pnrr sono quelli che ha dato l’Europa. Il modo con cui lo si sta attuando riflette una modalità antimoderna.

Un modo vecchissimo di governare la cosa pubblica. Prendiamo l’obiettivo importante del rafforzamento del welfare, gli asili e la cura degli anziani non autosufficienti. È iniziata con una metodologia di bando già morta.

Si tratta di bandi che non tengono conto dei contesti, delle condizioni finanziarie dei comuni. Problemi seri si manifestano anche per l’intervento sugli anziani non autosufficienti: su questo c’è un patto di associazioni, ne facciamo parte anche noi del Forum disuguaglianze e diversità, che hanno portato a casa l’impegno per una riforma importantissima.

È il tema del futuro, siamo una società vecchia. Il governo ha preso un impegno. Poi arriva la legge di bilancio e sul capitolo ci sono solo 100 milioni di euro. La grande operazione parte con una elemosina? Il Pnrr è uno sgocciolio sui territori.

Dà un pochino a tutti. A tutte le imprese, indipendentemente dal fatto che siano o no sulla frontiera della transizione ecologica. Un pochino a tutti i servizi, un pochino alle città e un pochino alle aree interne. Ma è un’idea vecchia.

E tuttavia è una gran mole di soldi che arriva e che viene distribuita. Tutto questo presuppone una “testa politica pubblica”. C’è?

La testa politica pubblica ha bisogno di due cose: di visioni strategiche mobilitanti, anche poche ma che diano al paese delle certezze, ai cittadini come anche agli imprenditori. E poi ha bisogno del rafforzamento della leva amministrativa.

La prima non si vede, come dicevamo ce n’è un po’ per tutti. E se uno dovesse dire alla fine le tre cose che il piano dovrà cambiare nella vita di noi italiani, quali sono? Non sapremmo rispondere.

Non c’è visione, non c’è neanche la messa a sistema di quei frammenti di visione della società civile e operosa che tengono in vita il paese. Sulla pubblica amministrazione c’è una delle poche novità positive ed è stato il riconoscimento del ruolo dell’amministrazione pubblica, cosa che nessun governo prima aveva mai fatto.

Ma a questo non sta seguendo una modalità di reclutamento delle nuove leve, che sarebbe la grande occasione del paese. Di nuovo, anche qui le modalità di reclutamento sono vecchie, conservatrici; con bandi fatti male, dell’altro secolo.

Questa è la cosa sorprendente del governo Draghi: è conservatore. Infisso nella parte finale del Novecento. Ci sono margini per un esito migliore della partenza? In parte sì, perché c’è il ruolo dei comuni e ci sono questi nuovi sindaci di centrosinistra, da Torino a Milano da Roma a Napoli, che hanno la grande occasione è di avere un ruolo per realizzare ciò che non è scritto dal piano, ma che non è impedito.

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Disuguaglianze e lavoro. Possiamo essere sicuri che dopo la cura del Pnrr una scenderà e l’altro aumenterà?

Se inietti tanti miliardi di euro nell’economia, il lavoro lo crei. Il tema è che sia buono e stabile, Ma questo non è obiettivo del Pnrr. Sulle disuguaglianze spendendo tanti soldi le puoi addirittura aumentare.

Faccio un esempio: se finisci per aumentare il tasso di partecipazione ai nidi dei bimbi di Milano e tenere fermo quello della Calabria aumenti il divario. Torno al tema della “bandite”: se i bandi sono fatti male favoriscono chi è già robusto e non le nuove iniziative.

Se nella legge della concorrenza non hai il coraggio, da liberale, di rimettere in discussione le concessioni balneari, stai perpetuando il fatto che si arricchiscono pochi a danno dell’ambiente e dei giovani sfruttati nelle nostre spiagge.

È una critica alla legge sulla concorrenza?

Altroché. Ho già detto delle concessioni balneari. Nell’agroalimentare perché c’è tanta irregolarità nei campi, perché ci sono gli schiavi? Perché i contadini sono costretti a vendere sottoprezzo perché la grande distribuzione fissa i prezzi.

Puoi affrontare il tema limitando il potere delle grandi distribuzioni. Ancora: se parli di concorrenza ti viene in testa Pfizer. Non è vero che l’Italia da sola non può far nulla. L’Italia è una grande potenza industriale, se avesse una politica estera potrebbe ribellarsi all’idea che Pfizer mantenga il monopolio dei vaccini per i prossimi dieci anni. Nella legge c’è nulla di queste, che sarebbero scelte liberali? No. Abbiamo un governo liberale?

Nel sottotitolo del suo libro lei parla di un partito che non c’è. La sinistra è senza partito?

A livello territoriale, non ovunque, ma in molte città medie, il Pd è ancora un veicolo in cui, con fatica, nonostante il freno della fascia della classe dirigente, riescono ad emergere giovani. A volte no, e sono costretti ad andare in liste civiche.

Ma spesso sì, ed è la ragione per cui bisogna avere il garbo dell’attenzione verso l’unica organizzazione che ha queste caratteristiche, con tutti i limiti. La rimozione graduale degli ostacoli, non per rottamazione, sembra nelle corde del segretario Enrico Letta.

Nelle sue dichiarazioni le “agorà” sembrano un modo per far emergere priorità strategiche e fare emergere persone, selezionare classe dirigente. Ci riuscirà? Non lo so. Ma è un raggio di speranza, rispetto alle chiusure che incontrammo nel 2014 quando tentammo il nostro progetto “luogo ideale”.

C’è chi propone Draghi come leader oltre il 2023. La politica tornerà, o i tecnici ormai sono un destino?

Le pulsioni tecnoautoritarie, le chiamo così, sono forti. Per contrastarle il sussulto della politica deve essere molto forte. Il ritorno alla visione, all’emozione, richiede coraggio, e conflitto.

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