«A Berlusconi abbiamo detto una cosa precisa: siamo pronti a dare battaglia per farti eleggere al Quirinale. Saremo leali e tu conta sui nostri voti, uno per uno. Ma a una condizione precisa: se i voti non arrivano, se non ce la faremo, il piano B dovrà essere di nuovo tutti compatti, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia.

Se il centrodestra si sfascia sul presidente della Repubblica, se sul Colle si ricompone la maggioranza di governo, metti in conto di non contare mai più su di noi». Sotto richiesta di anonimato, un senatore di Fratelli d’Italia spiega così lo stato dell’arte dei colloqui a destra sul Colle. Almeno quelli ufficiali, anche se riservati. Sui quotidiani infuriano le opposte campagne pro e contro l’ex Cavaliere al Quirinale.

La possibilità che ce la faccia sembra un thriller politico intitolato “Lo scherzo”, eppure in parlamento se ne discute. Nei capannelli dei deputati e dei senatori non c’è neanche da ripeterselo: l’anziano capo di Forza Italia, quello delle cene eleganti e del lettone di Putin, è anche il capo di una formazione politica in caduta libera, a fine corsa, nessuno più di lui può fornire la garanzia che la legislatura vada avanti fino all’ultimo minuto possibile.

Poi c’è quella storia raccontata dall’amico siciliano di Berlusconi, Gianfranco Micciché, e smentita da Matteo Renzi con finta noncuranza: «Matteo ha promesso che, se servirà, garantirà a Silvio i consensi mancanti».

Sembra fantapolitica. Eppure per stoppare la favola, il segretario dem Enrico Letta, rompendo il suo silenzio sul Colle, ha dovuto esplicitare che il Pd non voterà mai Berlusconi. Il tema del Cavaliere non sono i numeri. I 450 voti del centrodestra sarebbero una solida base di partenza, ben più dei poco più di 400 del centrosinistra senza Italia viva, che a sua volta ha una pattuglia di 43 voti che potrebbero essere determinanti, dalla quarta votazione – cioè quando basta la maggioranza assoluta – per un candidato di centrodestra.

Il tema è che tutto il dibattito sulla corsa di Berlusconi al Quirinale assomiglia a una recita in famiglia. Compreso il teatrino dei giornali pro e dei giornali contro. E non per il conflitto di interesse di cui il patròn di Mediaset ex Fininvest è portatore dai tempi della legge Mammì (1990, governo Craxi, contro l’approvazione l’attuale capo dello stato Sergio Mattarella si è dimesso con altri quattro ministri Dc); né per la pessima immagine del paese che andrebbe in giro per l’Europa e per il mondo. Anche il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano quando gli viene chiesto di parlare dell’eventualità di quell’elezione incredibile declina spiegando «che è solo una finzione, una fiction anzi», date le propensioni televisive dell’ex Biscione

Non è l’unico. E perché? Perché sono proprio gli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, a sapere bene che Berlusconi al Quirinale avrebbe come effetto collaterale quello di sbarrare la strada a uno di loro due, il più votato, a palazzo Chigi.

Una garanzia per Bruxelles

Il ragionamento viene fatto da un altro eminente “sovranista”, cioè nazionalista, che è il profilo ormai anche della Lega.

«Con Berlusconi al Colle, sia Matteo Salvini che Giorgia Meloni si scordano palazzo Chigi. Anche vincendo benissimo le prossime elezioni». Seguono le note argomentazioni sulla sovranità limitata e sul fatto a Bruxelles, sempre determinante per la nascita e la morte dei governi italiani (e qui vengono fatti esempi dalla caduta di Berlusconi del 2012 a quella del governo gialloverde del 2009). L’asse Berlusconi-Salvini o Berlusconi-Meloni sarebbe considerato totalmente inaffidabile. «Per governare sia a Salvini che a Meloni serve un presidente di garanzia».

Cioè europeista senza macchia e con buona reputazione. Meglio se Draghi. In ogni caso serve un democratico, un liberale, un europeista doc. Qui però il primo fratello d’Italia contesta: «Berlusconi sarebbe il nostro ponte perfetto per l’Europa, chi più di lui può dialogare con i leader europei, uno che notoriamente è stato vittima di una congiura e che è stato riabilitato, una perfetta cerniera fra noi e il Ppe». E invece per l’altro collega non è così: Berlusconi, è vero, ormai viene omaggiato dal suo Ppe, ma non sarebbe certo un interlocutore serio per l’Europa di domani, quella che vira verso i socialisti di Scholz, di Sánchez, di Costa.

In chiaro non se ne parla. Il ragionamento è stato solo sfiorato ieri alla presentazione di un libro di Gianfranco Rotondi (La variante Dc, edito da Solferino) in cui Dario Franceschini ha duettato con Meloni, lei nella sua nuova versione «conservatrice» con cui cerca di convincere le cancellerie europee di poter governare l’Italia senza spingere il paese al confine est dell’Unione.

Conservatrice, ma a intermittenza, come le luci di Natale: la prossima festa di FdI, Atreju, è convocata a Roma in una piazza di culto per la destra radicale. A piazza Risorgimento c’è infatti la lapide a Mikis Mantakas, militante del Fuan ucciso nel 1975 da un militante della sinistra extraparlamentare, anche se sulla morte restano dubbi anche giudiziari. Un luogo che ogni anno si trasforma in un pellegrinaggio dei neofascisti di mezza Europa.

Non c’è nessun veto dell’Unione su un governo di centrodestra, assicura Franceschini a Meloni, «Berlusconi ha governato per anni, e anche il governo Cinque stelle-Lega aveva posizione anti-europee». L’importante, ha chiosato, che il prossimo governo «non metta in discussione le posizione europeiste».

La presidente, a domanda, ripete svogliatamente il suo sì a Berlusconi al Colle: «Penso che sul tema della difesa della sovranità lui non sarebbe affatto un problema, anzi». L’altro giorno il ministro Luigi Di Maio si è lasciato scappare una battuta non elegante ma per una volta sincera verso il vecchio bersaglio politico: «Sento il bisogno di sentire Berlusconi per dirgli “guarda che chi sta fregando sono i tuoi alleati”», lo stanno lanciando verso il Quirinale «ma poi gli faranno vivere una doccia gelata».

© Riproduzione riservata