Non sarà una corrente, viene giurato e spergiurato, ma un’area culturale che nasce per «fastidio teorico» verso quell’idea secondo la quale «tutto ciò che ha un punto di vista critico è considerato eretico». Quando, alla fine di cinque ore quasi sei di maratona social che vanta numeri ragguardevoli – 27000 persone raggiunte riferiscono i social manager – Goffredo Bettini spiega il senso del manifesto «Le Agorà», si capisce meglio quello che ha in testa: offrire un luogo di confronto a cui il Pd sembra tradizionalmente allergico (anche quello di Zingaretti, evidentemenre); costruire un luogo in cui «singoli individui», nel senso di non intruppati, possano confrontarsi, dentro e fuori il Pd; per dare voce alla sinistra, fuori e dentro il Pd; perché conti – e forse anche pesi, ma questo viene negato – fuori e soprattutto dentro il Pd. «Sono fiducioso, perché Letta è un uomo intelligente, colto e democratico», spiega lui, «Vuole fare un partito inclusivo. E in questa inclusività la sinistra ci deve essere. Ora invece non si vede, perché nel dibattito politico la forza e la fisionomia della sinistra italiana bisogna cercarla, un po’ qui e un po’ là». L’obiettivo dunque è rafforzare una sinistra «moderna, aperta, critica. Utile non per innalzare vecchie bandiere, ma per affrontare le grandi prove dell’oggi». Il Pd «torni alla realtà», «passi dai telefoni bianchi al neorealismo, dalla globalizzazione alla strada, all’Italia vera. E ci si accorgerà che la disuguaglianza è una battaglia del futuro come lo è quella ambientale».

Il complotto

Bettini, che fa il suo rientro nell’agone politico dopo i giorni della caduta del governo Conte due, rivendica tutto il suo appoggio all’ex premier («Era il presidente del consiglio, non un passante»), ma deve subito difendersi da chi ha letto in un passaggio del manifesto delle «agorà» la denuncia di un «complotto» nei confronti dell’avvocato del popolo: «Conte non è caduto per i suoi ritardi e i suoi errori, che in parte ci sono stati» dice alla lettera il testo, «ma per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli». Non c’è scritta la parola complotto. Però c’è scritta un’analisi che evidentemente mezzo Pd non condivide. Anzi contesta, temendo che una lettura di questo tipo finisca per scavare distanze con il governo attuale. Dalla segreteria del Pd infatti viene ribadito puntigliosamente che «il governo Draghi è il nostro governo».

Sassolini dalla scarpa

Bettini rivendica anche la bontà della strada indicata con l’alleanza con i Cinque stelle, contestatissima nell’era di Nicola Zingaretti e ormai accettata come una amara necessità all’approssimarsi delle elezioni amministrative e soprattutto in direzione delle politiche: «Non abbiamo mai pensato a una alleanza strutturale e invece ora può diventarlo se si va su una legge elettorale maggioritaria e non proporzionale».

L’ex grande elettore di Conte si leva qualche sasso dalla scarpa. Ma la maratona degli interventi mette a fuoco tutti guai che il «nuovo Pd» di Letta ha ereditato dai suoi predecessori. Una trentina di interventi, sotto accusa il sedicente «riformismo» del partito che non ha visto le diseguaglianze crescere. O non le ha volute combattere. «Durante la pandemia sono state fatte per reazione cosa molto di sinistra ma la difficoltà è stata quella di rivendicarle», secondo il ministro Andrea Orlando, che polemizza contro la furia anticorrente, «sono felice che Bettini abbia varato la sua corrente», provoca, «il problema è che se il partito non c’è il partito diventa una federazione di correnti». «Area o corrente? Quando stavo nella Dc stavo in una corrente che si chiamava “Area Zac”. Forse la Dc si mediava anche fra le parole “area” e “corrente”», scherza Dario Franceschini, che invece da serio rivendica al Pd del Conte due il merito di aver trasformato i Cinque stelle in europeisti e in alleati di un fronte «che può confrontarsi con quello delle destre, e anche vincere». 

Ma l’analisi corale che viene svolta è inclemente, almeno a parole. C’è chi mette in guardia su chi farà la sinistra dell’alleanza («Non possiamo essere la parte moderata e rassicurante dei progressististi», avverte  Claudio Mancini, che però è grande fautore della candidatura a Roma di Roberto Gualtieri, non precisamente un barricadero), chi torna sull’addio traumatico di Zingaretti e si interroga sulla «mancata riuscita di Piazza grande» (Mario Ciarla); chi lamenta la sufficienza con cui il Pd si disinteressa degli intellettuali (Ivana Della Portella). Tutti d’accordo su un problema di identità incerta, o per lo meno «da ridefinire» (Cecilia D’Elia, portavoce delle democratiche).  Nessuno azzarda a trarre la conseguenza che il Pd debba essere azzerato. In realtà ci va vicino Gianni Cuperlo che paragona la mancanza di discussione sui fallimenti del Pd a un terremoto, «quando una casa resta profondamente lesionata, per salvarla si possono anche buttare giù alcune parti».

Ma i guai del Pd sono un problema anche per gli alleati. Agorà sarà «un ponte che guarda in altre direzioni, forze movimenti che magari non si riconoscono nel Pd anzi lo criticano» (Esterino Montino). Come Elly Schlein, ex Pd ed oggi vicepresidente della Regione Emilia Romagna, che accusa la  sinistra di aver mancato «la capacità di anticipare le grandi trasformazioni». Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) chiede la costruzione di una proposta di alleanza «radicalmente differente» alle destre, Massimiliano Smeriglio (europarlamentare indipendente) avverte che «c’è il rischio di elitarismo nell'esperienza del governo Draghi. È necessario ascoltare il grido di dolore delle categorie più colpite», e «ritrovare il coraggio, l’anima e i valori di una sinistra capace di cambiare questo paese partendo da chi sta peggio». 

Sinistra senza popolo

Un partito della sinistra interessa anche a chi di quel partito non è, ragiona la politologa Nadia Urbinati, «Non si esce dal fatto che i partiti sono importanti, l’esperienza di partecipazione a una elaborazione politica ha un valore per me che sono una cittadina», esterna al Pd eppure «legata e non fluttuante qui e là». Ma per fare una sinistra grande servono, insomma, tante cose che il Pd non ha. «Una passione civile che abbia la capacità di ricostruire una rete con la miriade di esperienze di uomini e donne che la politica ha perso, gente che spesso non ascoltiamo e non ritroviamo», secondo Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio. E’ la triste «sinistra senza popolo, e il popolo senza sinistra», secondo la definizione di Mario Tronti, padre dell’operaismo, che qui esorta a «elaborare elaborare elaborare». Le «agorà», secondo la declinazione bettiniana, saranno il luogo interno-esterno di questa elaborazione che, se andrà avanti, si autodichiara «eretica». «Sono la base di un partito popolare che si rinnova mescolandosi con la società», secondo la definizione di Marco Tolli. Sabato prossimo, all’assemblea nazionale del Pd, Enrico Letta lancerà le sue «agorà democratiche», e si misurerà se la coincidenza dei termini sarà anche coincidenza di punti di vista. Per il 29 aprile il neosegretario ha accettato l’invito di Bettini di discuterne anche con Giuseppe Conte, nella sua condizione, fin qui solo teorica, di futuro leader dei Cinque stelle.

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