C’è una sola voce che il decisionista Matteo Renzi ascolta sempre ed è quella di Maria Elena Boschi. Il tempo del “giglio magico” ormai è passato da un pezzo, ma di quel gruppo lei è l’unica ad essere sempre rimasta allo stesso posto: braccio destro del leader. Sono passati dodici anni da quando calcava un po’ goffamente il palco della prima Leopolda. Anni che lei ha speso a tessere una rete di contatti tanto fitta quanto articolata, che oggi le permette di muoversi a più livelli tra il parlamento e l’esecutivo. E di rivendicare per se stessa, se crisi sarà, l’eventuale poltrona in più in un ministero o alla presidenza del Consiglio.

Gli studi legali fiorentini

Chi frequenta palazzo Chigi sa che Giuseppe Conte sarebbe ben contento di risolvere l’impasse politica creata da Renzi con un avvicendamento: Maria Elena Boschi al posto di una qualsiasi delle ministre di Italia Viva. Di tutta la compagine renziana Boschi è l’unica a vantare col premier un filo diretto esclusivo, annodato tra le aule dell’università di Firenze e nelle sale riunioni di alcuni prestigiosi studi legali. I due si conobbero a Firenze quando Conte era professore di diritto civile e Boschi una avvocata civilista in carriera: entrambi erano membri della commissione esaminatrice di diritto civile della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Firenze. «Lei mi aiutò a correggere i compiti», aveva detto Conte in una intervista al Fatto Quotidiano. «Non lo aiutavo, eravamo colleghi di commissione», aveva precisato lei. A presentarli era stato uno degli uomini cardine della rete di Boschi, l’avvocato fiorentino e professore di diritto commerciale Umberto Tombari. Fu Tombari, a cui l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi aveva chiesto di guidare la partecipata del comune per la mobilità, a scegliere la sua ex allieva come praticante, affiancandola a un altro avvocato rampante del suo studio: Francesco Bonifazi.

Lo stesso Bonifazi che è un altro dei tasselli fondamentali nella storia politica di Boschi: fu lui a farla conoscere a Renzi, insieme diventarono parlamentari e insieme lasciarono il Partito democratico per Italia Viva. Tuttora sono legati a doppio filo: il fratello maggiore di Boschi, Emanuele, è commercialista e socio dello studio legale tributarista di Bonifazi. Nello stesso mondo legale spunta un altro nome dell’attuale governo con cui Boschi ha un rapporto burrascoso quanto privilegiato: durante gli anni fiorentini l’attuale ministro della Giustizia e avvocato fiorentino, Alfonso Bonafede, era assistente del professor Conte. Un legame a tre che si è palesato in occasione della mozione di sfiducia nei confronti del Guardasigilli del maggio scorso. Per salvare Bonafede e il governo, Conte incontrò proprio Boschi. Allora come nella crisi di oggi, Boschi non perde occasione di rimarcare la sua conoscenza pregressa col premier e dunque il suo ruolo personale di mediatrice, quasi al pari di Renzi.

Le cantine di Bolzano

Boschi ha appoggi non solo nell’esecutivo in cui vorrebbe entrare, ma anche in parlamento. In particolare grazie a un patto con il tassello essenziale del fragile equilibrio al Senato: gli autonomisti della Suedtiroeler Volkspartei. Nel 2018, la sua candidatura alla Camera nel collegio blindato di Bolzano mandò su tutte le furie il Pd locale, che si vedeva privato dell’unico rappresentante di lingua italiana. La decisione, però, era già stata presa al Nazareno con un accordo di ferro tra Matteo Renzi e il potente senatore Svp Karl Zeller. Zeller è stato l’orchestratore dell’operazione bolzanina, insieme al presidente della provincia autonoma di Bolzano, Arno Kompatscher. Boschi non poteva candidare ad Arezzo, perchè ancora impazzava il caso Banca Etruria che aveva colpito il padre.

L’Svp aveva un seggio blindato da offrire in cambio di attenzione politica nei confronti dell’autonomia. Da sempre, infatti, la politica del partito autonomista è quella di rimanere fuori dal governo ma – secondo la lezione dell’ex presidente della Svp Siegfried Brugger - di «spremerlo sino in fondo come un limone». Boschi, allora sottosegretaria alla presidenza del consiglio, ha saputo giovarsi proprio di questo, accettando di diventare la referente dell’Svp al governo in caso di vittoria del Pd. Del resto, Boschi aveva già dimostrato la sua fedeltà all’Alto Adige con una serie di norme nella sua riforma costituzionale. Indifferente agli strepiti dei dem, la macchina organizzativa dell’Svp ha preso in carico la candidata: alloggiata al centralissimo hotel Laurin di Bolzano, Boschi ha passato due mesi a girare per cantine a gustare vino e canederli e per sagre di paese, dal carnevale di Salorno all’inaugurazione delle caserme dei pompieri, sempre scortata da una delegazione autonomista.

Solo incontri sicuri, in cui lodare l’autonomia e l’autostrada del Brennero, e nessun dibattito pubblico. Il suo battesimo del fuoco, per testare la sua tempra e anche quella dell’accordo politico, è stato però la passeggiata in montagna con il re degli ottomila, Reinhold Messner: «Era estate. Un giorno mi telefona il presidente della Provincia Arno Kompatscher e mi chiede di portare in montagna Maria Elena Boschi. Non faccio politica, ma ho accettato l’invito della Boschi: e non mi sono pentito». Le cose poi sono andate diversamente: Renzi non è diventato premier, nè Boschi la sua numero due. Ma oggi questo legame col gruppo delle Autonomie al Senato (e i suoi voti per scongiurare la crisi di governo) potrebbe essere l’asso nella manica di Boschi: una ragione in più per farla entrare nell'esecutivo.

 

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