Domenica 20 e lunedì 21 settembre, tutti i cittadini maggiorenni possono votare al referendum costituzionale sulla legge che riduce il numero di parlamentari: da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi. Il quesito è: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari». Votando sì, l’elettore si esprime a favore del taglio del numero dei parlamentari. Votando no, sceglie di abrogare la legge costituzionale. Il referendum non ha quorum, quindi non esiste una soglia minima di votanti da raggiungere perché la votazione sia valida. Nelle settimane che hanno preceduto il voto politici, intellettuali e costituzionalisti hanno fatto dichiarazione di voto. E ognuno, a modo suo, ha spiegato le ragioni della propria scelta.

La rappresentanza

Secondo molti sostenitori del No, con la conferma della riforma costituzionale si andrebbe verso una drastica riduzione della rappresentanza a livello politico e territoriale: diminuirebbe infatti il numero di parlamentari per abitanti e il peso di alcune regioni del Centronord secondo le proiezioni aumenterebbe a scapito del Sud. Si tratta di un tema sollevato per esempio dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, che, posizionandosi nel campo del No, ha parlato di «restrizione degli spazi di democrazia, di rappresentanza e di libertà». Nella stessa direzione vanno le istanze dei Radicali, che vedono nella probabile vittoria del Sì un «rafforzamento della Casta»: secondo il deputato Riccardo Magi, infatti, la riforma «colpisce in realtà la possibilità di avere più potere da parte dei cittadini». La questione del peso delle regioni nell’elezione del nuovo parlamento è cara anche alle 6000 Sardine, che hanno scritto che «ancora una volta, il Sud, così come le aree interne, ne uscirà fortemente indebolito: avrà molta meno rappresentanza un territorio che avrebbe bisogno di avere molta più voce».

Si tratta di un’obiezione che viene respinta dai sostenitori del Sì con la rassicurazione che la rappresentanza sarà garantita dagli organi intermedi: secondo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il numero di deputati scelto dalla Costituente andava a compensare la mancanza di enti territoriali. Da allora «sono nate le regioni, le province, i comuni, i consigli di quartiere, le città metropolitane e le comunità montane che arrivano al mare. Credo che abbiamo abbastanza rappresentanti e quindi possiamo tagliare qualche parlamentare». Anche il costituzionalista Roberto Zaccaria sposa questa linea, affermando che con la riforma «si passerebbe a un rapporto di un deputato per 150mila persone e di un senatore ogni 300mila. Non sono numeri drammatici». In generale, in base alla linea del Movimento cinque stelle, primo promotore del taglio, l’aumento dell’efficienza del parlamento val bene la riduzione del numero di deputati e senatori. In particolare di quelli che, come si legge sul Blog delle stelle, «non rappresentano le principali forze politiche presenti nel paese ma gruppetti che servono solo a organizzare la sopravvivenza sulla poltrona»: insomma, meno parlamentari garantirebbero la riduzione dei gruppi presenti in parlamento, «auspicabilmente solo quelli che corrispondono a partiti e movimenti votati dai cittadini».

Il risparmio 

Il grande cavallo di battaglia dei Cinque stelle per la promozione del taglio è il risparmio che si concretizzerà per i cittadini. Sempre secondo l’ex leader Di Maio, la diminuzione del numero dei parlamentari vale «300mila euro al giorno». In realtà, il Movimento è pressoché solo nel sostegno di questa linea, visto che anche il segretario del Pd, pur avendo dichiarato (sconfessato da molti colleghi di partito) di voler votare sì, ha sottolineato come la sua posizione non si basi su «un tema di risparmi per lo stato, che sono minimi». A pungere però sul vivo i grillini è Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, rilanciato anche da Fiorella Mannoia, che su Twitter bolla il referendum come «una truffa per nascondere la rinuncia da parte del #M5S del suo principale obiettivo che era il taglio delle retribuzioni dei parlamentari».

Secondo la gran parte dei sostenitori del No la portata del risparmio garantito da un parlamento più piccolo è stata largamente esagerata dai promotori della riforma. I radicali parlano per bocca di Riccardo Magi addirittura di «illusione per avere un consenso facile utilizzando lo strumento del risparmio dei costi». Secondo l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, il taglio varrebbe lo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana, denaro che però «rimane sepolta tra le paurose cifre della finanziaria e la nuova dimensione degli interventi europei». Anche il costituzionalista Sabino Cassese, schierato per il no, ha spiegato di aver calcolato che il risparmio che si può ottenere dalla riduzione dei parlamentari «è pari a un settimo del costo di un F35».

Il referendum è sufficiente?

L’altro terreno di scontro tra i due comitati che si fronteggeranno domenica e lunedì è quello sul valore della riforma nel complesso: mentre chi dice Sì vede il testo come primo approccio, magari da completare (questa posizione è sostenuta soprattutto dal Pd) con una successiva modifica del sistema elettorale, chi parteggia per il No ritiene che il taglio lineare effettuato in questa maniera lasci un parlamentarismo monco, che non risolve le inefficienze pregresse.

È parte del primo schieramento Mara Carfagna, che con il suo movimento Voce libera si posiziona a favore del Sì in una Forza Italia divisa e invoca una revisione della legge elettorale e dei regolamenti delle Camere per «far funzionare la riduzione dei parlamentari». Anche il costituzionalista Michele Ainis vede la necessità di completare la riforma, a partire dalla necessità di ritoccare collegi e regolamenti, mentre l’ex segretario del Pd Maurizio Martina dichiara che le discussioni sulle norme necessarie per riequilibrare il testo sono già calendarizzate, «tanto sulla legge elettorale quanto i correttivi costituzionali».

Secondo Rosy Bindi, ex deputata Pd, invece, il taglio lineare «lascia irrisolti i problemi di fondo della democrazia parlamentare» e «aggrava tutti i problemi esistenti». Una presa di posizione netta, non distante dagli argomenti dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. Ai parlamentari di Italia viva, tutti schierati per il No, ha lasciato libertà di voto, ma alla scuola politica Meritare l’Europa a Castrocaro ha spiegato come la riforma «non è una svolta, è uno spot» che non supera le inefficienze del bicameralismo perfetto. 

Il funzionamento del parlamento 

Chi vota No ritiene che le camere verranno esautorate della loro funzione e che la mole di lavoro diventerà ingestibile. «Tagliare del 40 per cento i parlamentari darebbe un potere senza limite alle segreterie di partito, limitando di parecchio la volontà popolare», dice Giancarlo Giorgetti (Lega). Anche secondo il leader di Azione, Carlo Calenda, «Una Camera con 200 membri dovrà seguire le stesse commissioni della Camera dei deputati. Ma come si fa? Questo rallenterà il processo legislativo». «Un taglio secco del numero dei parlamentari, inserito in un sistema elettorale maggioritario come quello di oggi, rischia di dare pieni poteri a una maggioranza relativa», dice l’ex presidente del Pd, Matteo Orfini. Nel documento delle 6000 Sardine, si legge: «Un Parlamento meno numeroso non è più efficiente, semplicemente è un Parlamento che produce leggi peggiori. Le Commissioni permanenti resteranno, giustamente, 14 quali già sono. Il problema è che non essendo stati modificati i regolamenti, attualmente non tutti i gruppi riuscirebbero a essere rappresentati: se al Senato è previsto che uno stesso senatore possa essere assegnato a tre Commissioni permanenti, alla Camera no. Tutto questo, com’è ovvio, non produrrebbe efficienza, bensì rallenterebbe e abbasserebbe la qualità delle leggi».

Chi ha scelto il Sì, invece, sostiene che non ci saranno effetti sull’efficienza. «Anzi potrebbe funzionare meglio se si coglie questa occasione per mettere mano a tanti aspetti dei regolamenti e delle prassi parlamentari. Oggi le Camere non funzionano bene, con dibattiti spesso ripetitivi in cui, invece di dialogare e confrontarsi seriamente sul merito delle proposte, ci si dedica per lo più a polemizzare con gli avversari politici», dice il costituzionalista Valerio Onida. «Sono convinto che il Parlamento possa funzionare anche con 300 parlamentari in meno, anche perché ci sono parecchi parlamentari che non sanno nemmeno di essere al mondo», è la tesi del segretario della Lega, Matteo Salvini. Anzi, secondo l’ex capo politico dei Cinque stelle, Luigi Di Maio, «Le Camere saranno più efficienti perchè il Parlamento produrrà meno leggi e controllerà che le norme che emana funzionino. Attraverso il taglio avremo sì più velocità, ma rafforzeremo anche ruolo del Parlamento attraverso la revisione dei regolamenti». Anche l’ex eurodeputato del Pd vicino al segretario Zingaretti, Goffredo Bettini, ha detto «La riduzione del numero dei parlamentari credo possa portare a una maggiore riflessione su chi va in Parlamento. Anche perché la metà dei parlamentari oggi non fa niente».

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