«Ascolterete in Senato quello che ho da dire». Matteo Renzi è un habitué dei bluff, ma la risposta che dà a chi gli chiede quanto fa sul serio non è rassicurante. Intanto ieri, appena trovato l’accordo sul Mes con i Cinque stelle, ha avvertito che il suo discorso oggi al Senato «sarà durissimo». La maggioranza si era appena ricomposta sulla risoluzione che sarà votata alle camere dove il premier farà le sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre (alle 9 a Montecitorio, alle 16 al Senato). L’accordo è arrivato dopo una riunione in tre tappe. Ci sono il ministro degli Affari europei Enzo Amendola, quello dei Rapporti con il parlamento Federico D’Incà, la sottosegretaria Laura Agea e i capigruppo di maggioranza. Già in mattinata si trova un testo condiviso. Iv ci sta, i Cinque stelle si prendono un’altra mezza giornata per sottoporre il testo ai dissidenti. Ma è una recita. Nel pomeriggio l’ex ministra Barbara Lezzi, fin lì durissima, annuncia su Facebook: «Ho trascorso due intere giornate insieme ad altri sessanta parlamentari per mediare le posizioni, grazie a questo lavoro è venuta fuori una risoluzione che non è quella ideale ma rivendica il ruolo del parlamento in sede di ratifica». Una condizione che c’era già, e che vale per tutti i parlamenti nazionali. Comunque il sì dei Cinque stelle arriva. La formula concordata è fumosa: l’impegno è «a finalizzare l’accordo politico raggiunto all’Eurogruppo e all’ordine del giorno dell’Eurosummit sulla riforma del trattato del Mes» ma contemporaneamente a «sostenere la profonda modifica del patto di stabilità e crescita prima della sua reintroduzione, la realizzazione dell’Edis, il sistema europeo di assicurazione dei depositi bancari, e anche un processo che superi il carattere intergovernativo dello stesso Mes». «Lo stato di avanzamento dei lavori su questi temi – conclude il testo – in agenda sarà verificato in vista della ratifica parlamentare della riforma».

Niente firma

Sembra tutto risolto. E invece no. Nella riunione non viene detto, ma si scopre che Iv non firma. Spiega Davide Faraone: «Ascolteremo Conte in parlamento, firmeremo solo dopo». Ma è lo stesso Renzi a dire che sul Mes non ci saranno tensioni: «I problemi del M5s sono venuti meno nel momento in cui ha capito che se il governo va sotto su una roba del genere il governo va a casa. E prima di fare questo ci pensano dieci volte». Senti chi parla. Comunque il brivido del voto sul Mes, se mai c’è stato davvero, è archiviato.

Ma il premier Conte non ne uscirà più forte. E stavolta, al netto di Renzi, nei guai si è messo da solo annunciando sabato scorso a Repubblica la fumosa governance del Recovery fund. Una piramide con lui al vertice e, ai suoi lati, i fedelissimi ministri Roberto Gualtieri (Economia) e Stefano Patuanelli (Sviluppo), più Enzo Amendola (Affari europei) a fare da raccordo con Bruxelles. Sotto sei manager. Uno schiaffo ai ministri, anche quelli che fingono di non averlo ricevuto. Da una riunione notturna, convocata domenica dopo le proteste renziane, la capogruppo al Senato Maria Elena Boschi va via sbattendo la porta. Lunedì il Consiglio dei ministri si arena, complice il fatto che la ministra Luciana Lamorgese si scopre positiva al virus. I colleghi Bonafede e Di Maio, che le sono seduti accanto, vanno in autoisolamento. Viene riconvocato ieri, ma salta. Ufficialmente perché da remoto non si può votare.

In realtà Iv ha spiegato al premier che la cabina di regia va ritirata. O almeno cambiata «in maniera condivisa». Meglio se con un passaggio parlamentare: «Non daremo pieni poteri a Conte». Il nuovo appuntamento è stasera, dopo il voto del Senato.

Ieri Renzi ha minacciato la crisi. «Il presidente del Consiglio ha tutto l’interesse, nel nome dell’Italia, a fermarsi prima di fare un pasticcio istituzionale, prima che politico», dice, altrimenti «il parlamento è sovrano». Fa sul serio? Dalla stessa Iv si spiega che fino all’approvazione della legge di Bilancio non farà mosse azzardate. Dopo però «si apre un’altra partita». Renzi va in crescendo: «Se il premier ha fatto i conti o ha una maggioranza di cui non siamo a conoscenza oppure razionalmente si ferma e cerca di mettere insieme quella che ha».

Renzi non crede che dopo il Conte II ci sia il voto. Il Colle, è il ragionamento, non potrebbe sciogliere le camere senza verificare una maggioranza nelle camere. Che c’è, giurano. Per un renziano di rango «un cambio di premier potrebbe essere persino indolore».

L’affermazione è azzardata. Ma il voto anticipato è considerato impossibile: il combinato fra legge elettorale Rosatellum e taglio dei parlamentari produce un maggioritario spinto; a febbraio dovranno essere consegnati a Bruxelles i primi progetti per il Next generation Eu, rischiare che a gestirli arrivi un premier euroscettico è una follia; e così augurarsi che a eleggere il prossimo capo dello stato sia una nuova maggioranza.

Ma la novità, rispetto alle altre volte in cui Iv ha alzato i decibel, è che stavolta il Pd non si schiera in difesa di palazzo Chigi. Le decisioni in solitaria di Conte hanno sfinito i gruppi parlamentari.

Il segretario Nicola Zingaretti non interviene, ma i suoi stavolta si limitano a dire che «Renzi sbaglia i toni». Sottintendendo che nella sostanza ha ragione. «Abbassare i toni, pesare le parole, coinvolgere ed includere», twitta il suo vice Andrea Orlando. E non ce l’ha con Renzi, almeno non solo. In serata filtra la notizia che il Pd «lavora per trovare una soluzione».

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