Un personale che va avanti con l’età, costretto per qualche mese addirittura a contingentare i pensionamenti. Con il rischio di finire sotto organico rispetto alla soglia minima per garantire il corretto funzionamento della camera dei deputati una macchina complessa che sta affrontando, di anno in anno, un costante calo. Tanto che i dipendenti attuali sono 980, decisamente di meno rispetto al passato. Vent’anni fa, infatti, la pianta organica contava circa 2mila unità. C’è stato dunque un dimezzamento della forza lavoro e un graduale invecchiamento con un’età media di 54 anni. La conseguenza di 10 anni, dal 2011 fino al 2021, di mancate assunzioni e di esternalizzazione dei servizi, come quello della ristorazione. Il dato viene confermato dalla spesa per il pagamento delle pensioni, che oggi costano più del pagamento degli stipendi ai dipendenti.

Gli stipendi

Le spese previdenziali, in totale, hanno gravato sul bilancio del 2020 di Montecitorio per 265 milioni di euro, suddivisi in 230 milioni e 445mila euro per le pensioni dirette e il restante, 25 milioni e 700mila euro, per quelle di reversibilità. Una cifra che è praticamente più del doppio rispetto a quella riservata al pagamento degli emolumenti del personale dipendente, che ammonta a 180 milioni e 334mila euro.

Nel dettaglio gli stipendi costano alla camera 171 milioni e 355mila euro, a cui si sommano altri 3 milioni e 600mila di indennità di incarico e poco meno di un milione di euro per le voci sommate di «indennità di missione al personale», «spese di missione» e «altre indennità e rimborsi». La cifra arriva a 209 milioni di euro, considerando i contributi a carico del datore di lavoro che include le voci «integrazione al Fondo di previdenza del personale» (25 milioni di euro) e i «contributi previdenziali» (8 milioni e 140mila euro).

Un divario significativo di un trend che si è sedimentato nell’ultimo decennio. Dieci anni fa, nel 2012 solo la voce stipendi pesava 213 milioni di euro, molto di più in confronto ai 185 milioni di euro delle pensioni dirette. Considerando tutti i capitoli della categoria pensione era di 216 milioni di euro, mentre il totale della voce delle retribuzioni per il personale ammontava a 290 milioni di euro.

Un concorso difficilissimo

Nemmeno la riduzione delle cosiddette pensioni d’oro è servita a riavvicinare il maniera significativa le due voci di spesa. Il taglio, salutato con magno gaudio dal presidente della camera, Roberto Fico, è partito dal 15 per cento per chi percepisce pensioni tra 100 e 130mila euro all’anno, fino al 40 per cento per le pensioni superiori a mezzo milione di euro. L’impatto non è stato determinante a pareggiare almeno i conti con il pagamento dei salari.

L’attuale ufficio di presidenza della camera ha dovuto prendere atto della situazione e ha bandito negli ultimi mesi una serie di concorsi per riempire i vuoti che si apriranno con gli ulteriori pensionamenti attesi nel prossimo biennio. Il rischio è che si possa aprire una voragine se non si verifica una perfetta sincronizzazione tra uscite e ingressi, visto che dall’inizio del percorso concorsuale al giorno dell’entrata in servizio trascorre almeno un anno e mezzo, se non di più. E il taglio dei parlamentari giustifica fino a un certo punto la diminuzione delle unità di personale. 

Ma le buone intenzioni sono sufficienti. È il caso del concorso per consiglieri, che ha messo a disposizione 30 posti. Alla fine dell’iter, solo in 18 hanno superato la prova: all’appello mancano 12 lavoratori. Il motivo di questo risultato risiede nell’eccessiva difficoltà delle prove selettive, che hanno presentato delle modalità diverse rispetto al passato. Un destino simile si teme per la selezione degli assistenti: ci sono 50 posti da riempire, ma solo poco più di 100 sono riusciti a raggiungere la prova orale, una delle più temute.

I collaboratori parlamentari

E in mezzo ai tanti problemi del personale, Fico non ha mantenuto un’altra promessa, quella relativa alla posizione dei collaboratori parlamentari. Il presidente della Camera si era assunto l’impegno di risolvere la questione, garantendo ai collaboratori un cambiamento della condizione lavorativa. Attualmente sono considerati una spesa di esercizio del mandato del parlamentare. 

Gli onorevoli fanno quel che vogliono, decidono che tipo di contratto far sottoscrivere, favorendo l’emersione di storie di abusi, talvolta denunciati. L’Associazione italiana collaboratori parlamentari (Aicp) è nata proprio per portare avanti la battaglia di vedersi riconosciuti dei diritti, chiedendo che il rapporto di lavoro, seppure limitato alla durata della legislatura, fosse slegato dal parlamentare e sottoposto al controllo della camera.

La promessa di Fico era di trovare una soluzione, anche perché dal punto di vista procedurale basterebbe una semplice delibera, che non è mai arrivata. Per questo lo scorso 5 luglio l’Aicp ha promosso un convegno al Senato, coinvolgendo docenti universitari e parlamentari, con la sponda dei collaboratori dell’Europarlamento, per animare il dibattito sulla questione. Ma dai vertici di Montecitorio tutto tace.

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