Il Pd prova a rimettersi in sesto all’indomani del week end delle polemiche per le manifestazioni per la pace: quella di sabato a Roma, oceanica, finita con qualche fischio (anche amplificato dai media), ma soprattutto finita con una sconfitta secca nel derby con Giuseppe Conte, la cui presenza in piazza è stata gestita in maniera molto più furba; quella di Milano, convocata da Carlo Calenda, molto più ristretta nei numeri, a cui pure il Pd aveva aderito, si è rivelata il trampolino di lancio della corsa lombarda di Letizia Moratti a nome del “Terzo” polo. La candidatura ufficiale dell’ex assessora alla presidenza della regione è arrivata ieri.

Nel pomeriggio, in una lunga riunione di segreteria al Nazareno, è stata vagliata riga per riga la lettera della «chiamata alla partecipazione» da inviare ai potenziali nuovi iscritti. Spiega che non si chiede un’adesione a scatola chiusa, che il processo è aperto e che l’esito è contendibile.

Ma una parte della discussione è stata occupata dal come reagire alla sfida dei Cinque stelle sul tema della pace. Alla fine è arrivata la controffensiva, ed è sul doloroso tema dei migranti. Parla Peppe Provenzano, di ritorno dal porto di Catania: «Mi ha colpito il silenzio e l’attesa di Conte nell’esprimere un’opinione su una vicenda che riguarda i valori e i principi fondamentali di una forza progressista. Bisogna essere coerenti quando ci si dichiara progressisti». Del resto non è facile per Conte rimangiarsi tutto il suo primo governo con Matteo Salvini: dai decreti sicurezza ai casi Gregoretti e Open Arms.

Fra Renzi e Conte

Il segretario Pd cerca di reagire alla pioggia di colpi concentrici. A Milano la candidatura di Moratti ha scoraggiato il possibile candidato di centrosinistra Carlo Cottarelli. Ma è difficile, leggasi impossibile, per i dem digerire la candidatura di un ex ministra del governo Berlusconi ed ex vice di Fontana. «Non c’è nessun motivo al mondo», ha spiegato Letta, «il Pd lombardo è in salute».

Il sindaco di Milano Beppe Sala in realtà era possibilista. Ma sarebbe inimmaginabile rompere con il suo prestigioso predecessore Giuliano Pisapia, oggi europarlamentare indipendente del Pd, che nel 2011 l’ha sconfitta dopo una campagna elettorale zeppa di colpi bassi (Moratti arrivò ad accusarlo di essere stato condannato in gioventù per furto d’auto, “dimenticando” l’assoluzione).

Ieri, all’uscita della segreteria, il vice di Letta Peppe Provenzano ci ha messo una pietra sopra: «Chiudiamola qui: non ci possono essere equivoci e ambiguità, il Pd lombardo sceglierà con modalità che definirà in queste ore i tempi e i modi per raccogliere con un’alleanza larga di centrosinistra una proposta per vincere attorno a una candidata o un candidato».

Ma è difficile che la storia non finisca con una candidatura poco più che di testimonianza, come quella del sindaco di Brescia Emilio Del Bono. Per di più con il rischio che una parte del partito comunque voti per Moratti. «Renzi e Calenda si fermino un momento, accettino il confronto», chiede ancora Alessandro Alfieri, eminenza del Pd milanese (e portavoce di Base riformista). Va detto che il ciclone Moratti si è imposto al Terzo polo, con l’entusiasmo di Matteo Renzi, mentre Calenda provava ancora a cercare una quadra con i dem.

Lazio, appesi a Conte

Le cose non vanno meglio nel Lazio. Qui i guai sono forniti dai Cinque stelle. C’è un filone di racconto che rappresenta il Pd come pronto all’alleanza in vista delle regionali, persino a costo di archiviare i propri candidati: il vicepresidente della regione Daniele Leodori (che però ha chiarito che senza «campo largo» non sarebbe disponibile a correre); e l’assessore alla sanità Alessio D’Amato. Che invece va avanti, con la benedizione del “terzo” polo.

Per venerdì 10 novembre ha organizzato la sua convention al teatro Brancaccio. Hanno annunciato la loro presenza alcuni big: Luigi Zanda, Matteo Orfini, Gianni Cuperlo, Valeria Fedeli, Monica Cirinnà, Esterino Montino. E Claudio Mancini, molto vicino al sindaco di Roma, che però in serata ha chiarito: «Vado dove mi invitano, ma non sostengo nessun candidato in particolare». Atteso anche Calenda.

Per sedersi al tavolo Conte con il Pd chiede di partire dal programma, anzi dal no all’inceneritore, già concausa della caduta del governo Draghi. Il presidente M5s tiene i democratici appesi alle sue decisioni, forte anche del fatto che domenica scorsa Goffredo Bettini, a In mezz’ora (Raitre), ha rilanciato con forza la necessità dell’alleanza giallorossa, «è un compagno di viaggio, un potenziale alleato». Prima si era rivolto duramente al segretario Letta: è stato «un errore dire mai più con il M5S».

L’incognita armi

Le linee di frattura si incrociano, dal parlamento alle regioni e ritorno. Dopo il corteo per la pace, i Cinque stelle vorrebbero spingere all’angolo il Pd cercando un voto parlamentare per esprimere il loro no al sesto invio di armi (che pure hanno autorizzato fino a fine anno con il voto lo scorso primo marzo). Dalla piazza Conte ha intimato il governo di accettare «il confronto in parlamento».

Gli ha risposto il ministro della difesa Guido Crosetto: «Saranno utilizzate le stesse procedure che il governo precedente, e lui stesso, hanno utilizzato e avallato». Potrebbero depositare una mozione. Costringendo il Pd a dimostrare la distanza con le parole d’ordine disarmiste della piazza. E spingendo le contraddizioni fin dentro i gruppi parlamentari: la pattuglia di Art.1 e Demos potrebbero votare con M5s, o almeno astenersi.

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