Nell’organigramma del governo c’è una casella che è considerata sacrificabile da tutte le parti in causa ed è quella della ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo. Lo stesso Movimento 5 Stelle - il partito che la ha eletta al Senato per ben due legislature e che le ha dato da costruire l’impalcatura della legge-manifesto del reddito di cittadinanza – non sta alzando barricate per difenderla, come invece ha fatto per la sua collega all’Istruzione, Lucia Azzolina.

Di lei si dice che le dimissioni vengono chieste «per questioni di merito», a sottintendere che il suo operato nel dicastero che fu dell’ex capo politico Luigi Di Maio non abbia convinto nemmeno la sua stessa parte politica. Queste ragioni «di merito» hanno molto a che fare con la pandemia e non sono tanto il frutto di passi falsi, quando di mancanza di incisività. In tutte le partite chiave che riguardavano i lavoratori, infatti, la figura di Catalfo è sempre stata più che sfumata. Tra i casi più eclatanti, il decreto che regolarizzava il lavoro di braccianti e colf del maggio 2020. In quel caso, a farla da padroni sono stati i due ministri dem dell’Interno, Luciana Lamorgese e al Sud, Peppe Provenzano. Addirittura, Catalfo non avrebbe nemmeno preso parte a tutti gli incontri chiave.

Il caos al ministero

Catalfo, diploma di liceo scientifico e un passato da consulente del lavoro alle spalle, ha scontato sia alcune proprie ingenuità nella gestione che un apparato ministeriale in grave difficoltà. Di lei si racconta che ha messo molta buona volontà, soprattutto nel lavoro al tavolo sugli ammortizzatori sociali, ma ha commesso più di qualche errore di “galateo istituzionale”. «Prima convocava le parti sociali, poi separatamente incontrava anche i tecnici senza però coinvolgerle», racconta chi ha lavorato con lei.

Paradossalmente, a penalizzare il mandato di Catalfo sarebbe stato il suo predecessore, Luigi Di Maio. Lui, che nel precedente governo era anche titolare dello Sviluppo economico, frequentava il dicastero del Lavoro solo nei ritagli di tempo. Ma, in quegli sprazzi, ha messo in opera un repulisti profondo della burocrazia ministeriale: i tecnici di esperienza sono stati quasi tutti sostituiti, con un meccanismo di spoil system che ha portato nel palazzo di via Vittorio Veneto nuovi giovani dipendenti tanto fedeli a Di Maio quanto poco avvezzi di prassi ministeriali.

Questo cambio di guardia sul fronte dei funzionari è tra le ragioni che rende il ministero del Lavoro poco appetibile sul fronte delle contrattazioni interne all’attuale crisi di governo. Chiunque vi approdi sa che si troverebbe di fronte una struttura difficilmente gestibile nel breve periodo e che andrebbe riorganizzata. Ma, a pandemia ancora in corso, è quasi impossibile farlo a fronte delle numerose scadenze future: il rifinanziamento del reddito di cittadinanza, lo stop dei licenziamenti e la proroga della cassa integrazione, oltre alla riforma della previdenza.

Non a caso i due istituti nazionali Inail e Inps, sempre attenti a ciò che si muove al ministero, avrebbero iniziato a lavorare autonomamente sul fronte della previdenza sociale e della prevenzione.

«Gualtieri non vuole»

Il ministero del Lavoro, come e forse più di altri ministeri, si basa sulla credibilità di chi lo dirige. I cordoni della borsa per finanziare le misure sono in mano al ministro dell’Economia e scucirli richiede una paziente opera di convincimento e soprattutto proposte ben strutturate.

Catalfo, anche a detta di chi non milita nel suo stesso partito, ha tentato di strappare più fondi per il suo dicastero e lo ha fatto anche giovandosi di consigli esterni. Tuttavia, ad ogni timido colloquio con il ministro Gualtieri, Catalfo avrebbe portato a casa solo una lunga lista di no. «Gualteri non vuole», si sarebbe quasi scusata la ministra a chi le chiedeva come erano andate le contrattazioni.

Questo si è tradotto negli interventi inseriti nella legge di Bilancio appena approvata: non un progetto organico che affronti l’impatto del covid sull’occupazione, ma norme e correttivi inseriti qua e là che tamponano situazioni emergenziali.

Le dimissioni

Politicamente, tuttavia, l’addio di Catalfo dal ministero è molto complicata sul fronte grillino. L’ultimo annuncio della ministra è stato quello di un finanziamento extra al reddito di cittadinanza nel prossimo decreto Ristori, quantificato fra 800 milioni e 1 miliardo di euro, e non è certo scontato che la stessa iniziativa venga sostenuta da un eventuale sostituto dem o – peggio – di Italia Viva. Non solo: stando alle ricostruzioni degli ultimi giorni, l’ipotesi al vaglio di chi sta gestendo la crisi è quella di un passo indietro volontario di alcuni ministri per risolvere la frattura in maggioranza senza però costringere il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a dimissioni anche solo formali. L’altra ministra considerata in bilico, la democratica Paola De Micheli, ha fatto capire di non avere alcuna intenzione di farsi da parte spontaneamente e lo stesso potrebbe valere anche per Catalfo, il cui passo indietro dovrebbe essere sostenuto da adeguata eventuale contropartita.

Non solo: rimane anche il tema del possibile sostituto. In questo momento, il ministero dei Trasposti di De Micheli è quello più ambito e fa gola in particolare a Italia Viva, mentre quello del Lavoro non avrebbe pretendenti in fila.

 

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