Per dormire sonni tranquilli, bisognerebbe evitare di ascoltare le conferenze stampa della nostra presidente del Consiglio. Soprattutto se hanno come oggetto la cosa politicamente più preziosa che abbiamo, cioè l’equilibrio costituzionale e il senso stesso delle nostre istituzioni.

La prima impressione che ho tratto – ad ascoltarla – è un’approssimazione culturale e politica che è già un indizio non di poco conto. Rivendicandolo come un elemento a suo favore, Meloni ci ha tenuto a ribadire che lei non ha ancora espresso una preferenza e che si tratta di scegliere tra presidenzialismo, semipresidenzialismo, elezione diretta del premier. Come se fossero la stessa cosa e delineassero le stesse conseguenze per il paese.

Insomma, un riformismo à la carte. Si esce insieme una sera e si sceglie cosa sia meglio per sostituire un sistema che è stato pensato a caro prezzo, a partire dal sacrificio della Resistenza partigiana e con il contributo delle migliori menti del secolo scorso. Basta un consiglio di un cameriere qualsiasi per scegliere, non c’è mica più bisogno di Calamandrei.

Mi ha dato la stessa impressione di quei giornalisti sportivi che discutono su quale sia il modulo migliore per una squadra di calcio. Poi arriva un allenatore e si affanna a dire che il gioco di una squadra non è dato solo dal modulo, ma dalle distanze tra i giocatori, dai movimenti combinati, dall’occupazione degli spazi.

Ecco, il problema è che questa superficialità per cui tutta la complessità della questione viene ricondotta a “quale modulo scegliere” è in questo caso esibita da quella che è l’equivalente dell’allenatore della nazionale italiana, non di un qualsiasi campionato amatori.

Una lunga storia

Ma credo anche che non possiamo imputare quest’approssimazione culturale solo alle colpe di Meloni. Dietro di lei c’è una lunga storia, che non dobbiamo dimenticare e che può suggerirci forse delle strategie per non perdere questa ennesima battaglia. È la lunga storia di quella che chiamerei l’ossessione riformista. Nasce in fondo già all’inizio degli anni Novanta, con il referendum Segni e l’illusione – condivisa dai più – che la crisi della politica fosse una crisi di governabilità.

Tutti i tentativi di riforma che si sono susseguiti sono andati in questa direzione, aderendo di fatto a quest’analisi della crisi. Certamente in quel momento vi erano tanti motivi interni, ma la circostanza più sospetta è un’altra: il fatto che in tutto l’occidente si è assistito da allora a tentativi ricorrenti di spostare il senso stesso della democrazia da regime che limita ogni eccesso di potere a regime che deve invece legittimare un potere sempre più forte, sempre più eccessivo, sempre più sbilanciato, sempre più concentrato in poche mani. In termini più chiari: ciò che sta cercando di fare Meloni non è solo in continuità con la sua inquietante storia – non ci può essere vendetta più grande per gli eredi dei fascisti che avere l’occasione di riformare la Costituzione antifascista – ma anche con una tendenza che non è esclusivamente della destra italiana, ma che attraversa tempo e spazio e sembra da decenni ossessionare tutte le parti politiche.

Secondo quest’ossessione la “buona politica” non si è mai potuta realizzare non per i limiti della classe politica, ma perché sarebbe ostacolata da alcuni difetti strutturali dell’architettura istituzionale dello stato. Secondo questa convinzione – che a pensarci bene piace così tanto ai politici perché finisce per assolverli dalle loro colpe – sarebbe necessaria una riforma costituzionale che risolva il vero problema della democrazia: la mancanza di un “potere (realmente) forte”. Siamo di nuovo e sempre lì, anche stavolta.

È dunque evidente – e vengo così alla parte costruttiva del mio discorso – che non ci si può opporre ancora a questi progetti se non si abbandona definitivamente l’ossessione riformista. Il che significa sostanzialmente che chi sta all’opposizione deve finalmente trovarsi d’accordo su due semplici cose.

Tempo esecutivo e legislativo

La prima è che quell’analisi che aveva sedotto quasi tutti all’inizio degli anni Novanta si è dimostrata del tutto falsa. La crisi della democrazia non nasce da un difetto di governabilità, ma da un difetto di rappresentanza e di partecipazione.

Tutta la storia politica italiana più recente si può leggere precisamente come un tentativo di depotenziare gli strumenti della partecipazione e della rappresentanza (pensiamo alle imperdonabili riforme elettorali votate a destra e a sinistra) a favore di governi la cui legittimità formale non era in discussione ma la cui corrispondenza con la volontà popolare non risultava semplice da comprendere. Quel che Gustavo Zagrebelsky ha chiamato magistralmente «tempo esecutivo».

La seconda è che a questo «tempo esecutivo» dobbiamo opporre di nuovo la dignità del «tempo legislativo». Dobbiamo spiegare con forza (e con pazienza) che il parlamentarismo non è la causa della crisi democratica ma è ciò che è in crisi e che dobbiamo proteggere.

È perché il parlamento non conta più nulla – esautorato da prassi esecutive che l’hanno reso quasi inane: i decreti legge con cadenza quotidiana, i regolamenti parlamentari del tutto inadatti, le leggi elettorali che hanno ridotto al lumicino ogni credibilità della classe politica – che la democrazia è in crisi. Dunque all’ossessione riformista bisogna rispondere con un’ossessione parlamentarista.

Non fare semplicemente una campagna contro il presidenzialismo (o un’altra delle tante versioni che servono a legittimare un potere sempre più forte e con meno contrappesi), ma approfittarne per lanciare una campagna per rafforzare il primato del parlamento, il cui progressivo disconoscimento è la vera causa della crisi decennale della nostra democrazia.

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