Non solo sabotaggi reciproci e piccole beghe locali tutte interne: questa tornata di amministrative ha fatto scattare nel centrodestra l’allarme per la mancanza di classe dirigente.

Le prime sirene avevano iniziato a suonare anche nell’autunno scorso, quando l’infornata di candidati improbabili aveva fatto perdere i maggiori capoluoghi: Catello Maresca a Napoli, Enrico Michetti a Roma e Luca Bernardo a Milano. Candidati dai profili irriconoscibili, nati e formatisi lontano dai partiti che li hanno sostenuti, tutti sconfitti.

Il dato è inequivocabile ed è emerso con tutta la sua forza ora che al voto andavano soprattutto comuni del nord, dove il centrodestra ha storicamente prodotto classe amministrativa e invece adesso si trova ad aver finito il serbatoio degli amministratori locali e a dover candidare civici senza storia politica alle spalle oppure ex amministratori già quasi fuori dalle scene.

Esempi sono il candidato di Parma, Pietro Vignali, già sindaco della città portato alle dimissioni da vicende giudiziarie e ricandidato ora con pochissime possibilità di successo. Lo stesso vale per Federico Sboarina, entrato in Fratelli d’Italia ma proveniente da un percorso civico, sindaco uscente di Verona senza aver brillato e molto condizionato dai sussurri del presidente leghista della regione Veneto, Luca Zaia. Così anche gli sconfitti di Catanzaro, Valerio Donato che addirittura viene da una storia nel Partito comunista e di Carrara, dove Lucio Caffaz si presentava come civico più che come leghista.

Come è successo

Il prosciugamento delle risorse di personale amministrativo ha probabilmente come causa il progressivo accentramento del livello decisionale lontano dai territori. Nel corso degli ultimi anni, con il depotenziamento di Forza Italia e lo scontro sempre più aperto per la leadership tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, le elezioni amministrative sono state gestite con il manuale Cencelli. Vale a dire che i candidati nei comuni sono stati ripartiti tra Lega e Fratelli d’Italia sulla base di uno schema rigido e discusso al tavolo di coalizione nazionale, poi calato sui singoli territori.

Così è stata scelta nell’autunno scorso la strategia dei “civici” Michetti, Bernardo e Maresca, con cui Meloni e Salvini pensavano di neutralizzarsi a vicenda. Così è stato anche in questa tornata, in cui è rimasta in piedi la regola aurea del centrodestra secondo cui «il sindaco uscente si ricandida sempre» e per gli altri candidati si è fatta una ripartizione pro quota.

Che qualcosa si sia rotto, forse irrimediabilmente, è sentire comune. A esplicitarlo, nelle scorse settimane, è stato però chi di questo meccanismo ha beneficiato con la candidatura ma poi ha fatto le spese in campagna elettorale: il candidato sindaco di centrodestra a Torino Paolo Damilano, civico anche lui e sconfitto inaspettatamente, che dopo sei mesi di opposizione ha lasciato la coalizione che lo aveva sostenuto.

Al momento dell’inizio della sua campagna elettorale ha infatti ricordato che «il centrodestra era ancora molto in difficoltà nel mettersi d'accordo sulla scelta dei candidati delle grandi città come Roma e Milano. Difficoltà nel trovare un accordo che si sono manifestate su tutta una serie di tematiche importanti durante le ultime fasi della campagna elettorale, come vaccini, green pass, diritti e che hanno contribuito pesantemente alla sconfitta». Un copione che secondo Damilano si è ripetuto identico anche a maggio, in cui si sono visti «ancora episodi di evidente difficoltà nel relazionarsi per trovare accordi, anche dove la vittoria parrebbe di facile portata».

Il timore per le regionali

Il timore, ora, è che si prosegua sulla stessa china anche per le prossime regionali. Fratelli d’Italia ha rivendicato il diritto a esprimere il candidato in due grandi regioni e la preferenza sarebbe per Sicilia e Lazio, se ciò non avvenisse sarebbe pronto a mettere in discussione il candidato leghista uscente in Lombardia, Attilio Fontana.

Il problema, però, torna ad essere quello di trovare candidati: in Sicilia l’uscente Musumeci, civico ma da poco iscritto a Fratelli d’Italia, si sta arrendendo davanti alle evidenti ostilità di Lega e Forza Italia sull’isola; nel Lazio l’assenza di nomi convincenti (è girato quello di Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera e cognato di Meloni, che però non sarebbe entusiasta dell’idea) ha fatto vagheggiare anche l’ipotesi primarie.

In Lombardia, infine, la disastrosa gestione dell’emergenza Covid da parte dell’uscente Fontana rende minacciosa la rincorsa del centrosinistra e lo stesso Fontana non ha ancora sciolto le riserve su una sua ricandidatura. La Lega è pronta ad appoggiarlo, altrimenti si aprirebbe l’ennesimo difficile tavolo di coalizione per trovare un sostituto, con il rischio di ricadere sull’ennesimo civico di mediazione.

Non a caso, in questa confusione, ha fatto capolino la vicepresidente della regione Letizia Moratti, dando la sua disponibilità a candidarsi. Civici poco radicati o vecchie glorie: i due mali tra cui il centrodestra sembra inevitabilmente rassegnato a scegliere.

 

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