Comporre le liste è quasi un mestiere politico a sè: ogni partito ha l’alchimista che conosce i cavilli della legge elettorale e stabilisce cosa conviene fare a seconda dei territori, del perimetro dei collegi e del premio di maggioranza, per valutare come spartire i posti all’interno della coalizione.

Poi, è compito del segretario avere l’ultima parola rispetto ai desideri delle correnti su chi collocare dove, chi premiare con un collegio sicuro e chi invece gettare nella mischia in un territorio conteso o – peggio – dato per perso. Le ultime notti che precedono il deposito delle liste sono agitate e insonni. La mattina si è dentro, in posti eleggibili, ma nella notte una manina invisibile può cancellare il nome o spostarlo in altro collegio. «È una maratona. I primi giorni bisogna quasi disinteressarsene perchè sono schermaglie, ma senza stare mai troppo distanti dal mucchio. Ma il posto si vince al rush finale: le ultime ore determinano se si è dentro o si è fuori», spiega un ex parlamentare con quattro legislature alle spalle e che di notti barricato nelle sedi del suo partito ne ha passate molte.

Nel centrodestra, il caso di scuola è quello dell’ex ministra Nunzia De Girolamo nel 2018. I sondaggi riservati di Forza Italia certificavano che solo i primi in lista sarebbero stati certamente eletti. De Girolamo era sicura del suoi posto da capolista a Benevento, confermatole dal responsabile dell’organizzazione. La sera il nome c’è, al mattino invece è sparito, finendo al secondo posto dietro Cosimo Sibilia (che doveva invece correre come capolista a Napoli sud-Salerno). Lei lo scopre, si precipita alla sede romana del partito per chiedere spiegazioni e sospetta che la congiura sia nata dentro la sua regione. A prendere i fogli delle liste per depositarli, infatti, sono andati i maggiorenti campani Domenico De Siano, Luigi Cesaro, Paolo Russo e Mara Carfagna: solo loro possono averla pugnalata alle spalle. Risultato: De Girolamo esce dal parlamento, l’ex presidente della provincia di Avellino viene eletto.

In questa campagna elettorale lampo, le date cerchiate in rosso sono il 20 e il 21 agosto: dalle 8 del primo giorno fino alle 20 del secondo si apre la finestra per la presentazione delle candidature presso le cancellerie delle Corti di appello.

In questo momento, quindi, nel centrodestra il gruppo in corsa è solo alla prima curva ed è ancora piuttosto corposo. Non a caso il leader della Lega, Matteo Salvini, ha fatto sapere che non ha intenzione di iniziare a parlare davvero di liste prima di Ferragosto: una settimana è il tempo giusto per decidere. Cominciare prima significa logorarsi, andare troppo a ridosso potrebbe provocare errori decisivi. Anche perchè l’attuale legge elettorale prevede il meccanismo diabolico del 33 per cento di eletti con il sistema maggioritario, ridotti di numero dopo il taglio dei parlamentari.

Il metodo Verdini

Nel proporzionale ogni singola lista presenta i suoi candidati, nel collegio uninominale maggioritario invece il candidato è unico. L’alleanza ha chiuso l’accordo su come ripartire le 221 candidature: 98 seggi a FdI, 70 alla Lega, 42 a Forza Italia e 11 a Noi con l'Italia più Coraggio Italia insieme all’Udc. Dopo l’ottimismo d’ordinanza dei leader per aver deciso le quote, entrano in campo gli specialisti delle campagne elettorali perchè bisogna assegnare ad ognuno precisi collegi sulla mappa dell’Italia. Il punto, infatti, non è solo quante candidature si possono esprimere, ma dove. Per esempio: per la Lega un seggio nel Veneto non è paragonabile ad uno al sud.

Il metodo adottato al tavolo è noto come “il metodo Verdini”, dal nome dell’ex potente toscano di Forza Italia, Denis Verdini. Prima dei guai giudiziari, Verdini è stato deputato dal 2001 al 2013 e al Senato fino al 2018. Dal 2009, in quanto coordinatore del Popolo delle Libertà ed esperto conoscitore della macchina organizzativa, è stato lui a gestire il tavolo per conto di Silvio Berlusconi.

Il “metodo Verdini”, utilizzato anche alle elezioni del 2018, prevede di dividere i collegi in sei fasce di rischio, dalla roccaforte al collegio impossibile, con in mezzo quattro sfumature di colori da contendersi. Il criterio per assegnare le fasce è principalmente dato sondaggi, calmierati da altri criteri secondari che dipendono dall’appeal di ogni partito rispetto alle specificità dei territori. Quando poi la mappa colorata è approvata da tutti i partiti al tavolo, i collegi si ripartiscono pro quota sulla base dei rapporti di forza prefissati.

Controversa è l’attribuzione del nome: chi nel centrodestra non ama l’ex ras toscano sottolinea che il “metodo Verdini” lo hanno inventato i giornali, perchè «i collegi si sono sempre divisi in fasce poi i criteri e i colori cambiano, ma la sostanza è che vengono catalogati in base ai sondaggi». Metodo razionale e infallibile sulla carta, con un margine di rischio nel concreto. «Nel 2018 il nostro metodo saltò perchè il risultato clamoroso del Cinque stelle al sud sbalzò completamente le previsioni», spiega un esperto deputato azzurro con sei legislature alle spalle e pronto a correre ancora. In questa tornata elettorale, invece, l’incognita imprevedibile è data dal fatto che i nuovi collegi sono molto più grandi rispetto al 2018 e nessuno ne ha ancora sperimentato la tenuta elettorale, quindi c’è un margine di errore impossibile da calcolare. Per colorare la mappa c’è ancora una manciata di giorni, prima che lo scalpitio degli aspiranti candidati non obblighi le segreterie a svelare quali collegi hanno ottenuto.

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