Alla fine nel Pd lo strappo sul sì al referendum per cancellare il Jobs act non c’è stato. Elly Schlein ha scalpellato la posizione ufficiale del Pd, tutti sì (ai quattro quesiti Cgil e a quello sulla cittadinanza), ma ha assicurato che non chiederà «abiure a chi non li ha firmati tutti e non voterà a favore di tutti».

A sua volta Alessandro Alfieri, coordinatore della minoranza riformista, che non ci sta a sbianchettare gli anni di Renzi dalla storia del Pd, ha messo a verbale la sua contrarietà: «Non voterò il referendum sul Jobs act, un referendum che considero superato».

Quella legge, è il ragionamento, è stata smontata dalla Consulta, la battaglia è di retroguardia. E poi «serve pluralismo», ha sostenuto Lia Quartapelle, perché quel quesito «è sostenuto solo dalla parte più estrema del sindacato, visto che la Cisl, fino a poco tempo fa non lontana dal Pd, non è d’accordo, e la Uil non ha raccolto firme e sta ragionando se mobilitarsi». Alla parola «estrema» Susanna Camusso, ex leader Cgil e ora senatrice Pd, si è inalberata.

La cinghia di trasmissione

Il cuore del passaggio del Pd a guida Schlein sta qui, e non nell’ipotetico referendum «contro il renzismo», questione ormai «superata» nel Pd e forse archiviata dallo stesso Renzi, che ha annunciato i comitati per il No, ma poi ha tutta l’intenzione di tenere la questione «bassa», non gli va di litigare su una legge che quasi non c’è più.

La questione non sta nell’ultimo strappo con il Pd con il renzismo, ma quello con le origini vere del partito, quelle veltroniane: il Pd che investiva sull’unità sindacale, che nel 2008 eleggeva l’operaio Antonio Boccuzzi e il falco di Confindustria Antonio Calearo, fino a quello del 2022 che ha eletto Susanna Camusso, ex segretaria Cgil, ma anche Anna Maria Furlan, ex segretaria Cisl.

È questa la faglia interna, e l’accordo di coabitazione negoziato sul Jobs act è un risultato win-win e un confronto rimandato. I riformisti restano sulla riva del fiume ad aspettare i risultati di quel quesito (non degli altri su cui hanno giudizi variegati), scommettendo che nel paese dei salari allo sprofondo il ritorno all’art. 18 (della legge Fornero) non smuove passioni né consensi, e meglio sarebbe stato lasciare che la Cgil andasse a sbattere da sola. Dunque si ascoltavano giudizi amari, giovedì sera, fuori dalla direzione. «Il Pd ha appaltato le questioni del lavoro alla Cgil». «Si è ribaltata la cinghia di trasmissione: prima la Cgil obbediva al Pci, ora è il Pd che obbedisce alla Cgil».

L’atto precedente dello scontro era stato pochi giorni prima, e non era finito win-win: per poco la linea della segretaria cappottava. Martedì sera alla Camera Schlein ha convocato deputati e senatori per discutere della legge sulla partecipazione dei lavoratori alla governance delle imprese, in attuazione dell’art. 46 della Carta.

Una legge di iniziativa popolare nata dalla raccolta di firme della Cisl, planata in parlamento, scelta con furbizia dalla premier per portare a casa la saldatura fra il sindacato di Luigi Sbarra (segretario fino a poche settimane fa, ora al suo posto c’è Daniela Fumarola) e il primo governo a guida post-fascista della storia repubblicana. Per questo la legge è stata svuotata, stravolta e trasfigurata nel suo contrario.

La segretaria ha aperto la discussione con un sonoro «votiamo no». Il perché lo hanno spiegato Cecilia Guerra e Arturo Scotto: su una legge già «pallida» si sono abbattuti i peggioramenti della maggioranza. La partecipazione «non è obbligatoria, come in Germania. Non c’è un canale codificato di selezione dei rappresentanti dei lavoratori» con il rischio che «qualcun altro decida al posto loro». E, infine, «se c’è un piano di ristrutturazione, i lavoratori non hanno nessun potere di stopparlo».

Tutto giusto, ma l’ala riformista ha fatto muro, forse per la prima volta da quando Schlein è al Nazareno. Uno dopo l’altro Lorenzo Guerini, Andrea De Maria, Piero Fassino, Anna Maria Furlan hanno spiegato che «oltre al merito» c’è una questione politica, cioè «tenere aperta una relazione con un sindacato importante». I riformisti hanno firmato quella legge ai banchetti, e i riformisti della Cisl hanno sostenuto il riformista Stefano Bonaccini al congresso. 

Ma dal lato della segretaria e dei suoi la legge, così trasformata, è impotabile. C’è un punto, in particolare: un emendamento che cambia il riferimento ai contratti siglati dai sindacati più rappresentativi, e che di fatto apre ai sindacati con minore rappresentanza. Una vera fissazione per la destra, un tentativo di ridimensionare i grandi sindacati e includere una miriade di sigle, anche quelle più vicine al governo. Un tentativo già respinto nel decreto primo maggio, nel decreto Pnrr, nella revisione del codice degli appalti. E che non piace neanche ad alcune grandi associazioni datoriali. A questo punto Francesco Boccia tratta con il sottosegretario Durigon, ottiene la cancellazione di questo emendamento. E così il voto del Pd cambia: dal no all’astensione.

Il bipolarismo sindacale

La legge ora passa al Senato. Ma la vicenda non si esaurisce con questa legge. La vicenda ha a che vedere con la famosa «identità del partito». I riformisti accusano «il Pd di essere schiacciato sulla Cgil», la sinistra accusa «la Cisl di essere schiacciata su Meloni»: morale, altro che unità sindacale, saremmo al bipolarismo sindacale, un sindacato di sinistra e uno di destra.

Le rotture fra Cgil e Cisl non sono una novità dai tempi di Berlusconi. Ma oggi siamo molto avanti: alle ovazioni della premier Meloni all’ultima assemblea Cisl, l’11 febbraio, fino al “fratello d’Italia” Walter Rizzetto che dichiara che «la Cisl è il nostro sindacato». «Una sciocchezza», secondo la senatrice Furlan, che oggi parla da «semplice iscritta». Ma, chiediamo, il Pd si è schiacciato sulla Cgil? «Sarebbe un errore tragico, un grande partito riformista e popolare deve tenere un’interlocuzione forte con tutti i grandi sindacati».

Quanto alla Cisl schiacciata sulla destra, Furlan nega: «La destra non conosce la natura della Cisl, un sindacato autonomo che non si fa mettere nessun cappello dalla politica». Eppure se alla famosa assemblea Meloni ha accusato Maurizio Landini di praticare «una tossica visione conflittuale», qualche giorno dopo Sbarra ha denunciato la cultura della «sterile contrapposizione»: che era una variante attenuata delle parole della premier.

Lo ha fatto all’istituto Sturzo, durante un bel seminario su Franco Marini, formidabile leader Cisl ma anche fondatore del Pd. A lui il suo sindacato ha deciso, scelta encomiabile, di dedicare una fondazione, di cui – attenzione – proprio Sbarra sarà presidente.

«Siamo tutti interessati all’attività della Fondazione», ha detto nelle conclusioni Pierluigi Castagnetti, presidente dei Popolari. Ricordando, e non a caso, la scelta di Marini di non seguire Rocco Buttiglione quando, nel 1995, portò il Ppi fra le braccia di Berlusconi, ruggendo: «Dove ci sono gli eredi del Msi, io non ci sarò». Avviso a chi vuole portare alla fiamma la tradizione Cisl; ma forse anche a chi, al Nazareno, dimentica che un grande segretario Cisl è stato uno dei padri nobili del Pd.

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