È stato Carlo Calenda a costringerlo a una fastidiosa notorietà. Quando, rifiutando le avance del Pd, ha detto: «Non voglio fare il sindaco dipendendo da Bettini, Mancini e Astorre». E poi: «Letta, allontana Bettini, Astorre e Mancini e la loro classe dirigente. Non li far governare le primarie». Per l’ex ministro, Bettini, Mancini e Astorre sono la triade del male democratico nella capitale. Goffredo Bettini, ideologo del Pd veltroniano e padre del “modello Roma” ai tempi delle giunte di centrosinistra, oggi leader della “noncorrente” Le Agorà; Bruno Astorre, dem di lungo corso, potente segretario regionale ex Dc e Mancini.

Ma chi è Mancini? Un giocatore della Roma, un allenatore della Lazio, un agente segreto che si fa beccare in un autogrill con Matteo Renzi? Ovviamente no. Mancini, che di nome fa Claudio, è uno che a Calenda risponde ostentando modestia: «Non ci conosciamo, considero già un onore che sappia della mia esistenza. Io a Roma faccio il tesoriere Pd e mi occupo di tenere aperti i circoli e di pagare i conti, sempre difficili, di un partito che vive dei contributi degli iscritti e degli eletti». Ma poi lascia scivolare il veleno nella coda: «Di Calenda l’unica cosa che so è che a un certo punto si era iscritto al circolo Pd del centro storico e aveva promesso un contributo di mille euro. Non so se poi lo abbia versato o meno».

Dietro Gualtieri

LaPresse

Il nome di Claudio Mancini è molto evocato in queste ore nelle redazioni romane dei quotidiani. Se si conquista la sua fiducia, impresa difficilissima, è lui la fonte più affidabile di chi vuole sapere come l’ex ministro Roberto Gualtieri si prepara alla corsa per Roma. Capo del quartier generale ufficioso – finché Enrico Letta non dà l’ok hanno promesso di non fare uscite pubbliche – capo delle relazioni in città, con una certa confidenza con il fundraising. Mancini vuole fortissimamente che il suo amico vada in Campidoglio e che la stella offuscata del post dalemismo riprenda fiato. Lui si schermisce: «Sosterrò Roberto, come sempre, ma gli resterò distante. Per lui sarei ingombrante».

La possibile candidatura di Gualtieri circolava già quando era ancora ministro. Alla caduta del Conte II sembrava cosa fatta anche perché, nel frattempo, Nicola Zingaretti negava l’intenzione di correre. Poi è successo un pasticciaccio. Letta è diventato segretario il 14 marzo. Due giorni dopo alcuni giornali scrivevano che per Gualtieri era cosa fatta. Il neosegretario non si era ancora insediato al Nazareno e veniva trattato come un passante. Così si è irritato, ha convocato l’ex ministro e lo ha richiamato all’ordine.

Gualtieri, all’uscita dall’incontro «franco e cordiale», diceva: sulla candidatura «devo riflettere ancora» ma con il segretario c’è «piena sintonia. Entrambi siamo rimasti stupiti per le indiscrezioni su una inesistente fuga in avanti rispetto a un percorso che richiede ancora importanti passaggi politici».

Sul Corriere della sera Maria Teresa Meli scriveva che era stato Mancini, «il ras del Pd romano», a «forzare gli eventi», cioè a parlare con i cronisti. Lui valutava una querela. Però il 20 marzo si faceva intervistare dalla testata online locale RomaToday e tornava sul suo candidato del cuore: «L’impatto della notizia della possibile candidatura di Gualtieri è stato così forte perché è forte l’attesa dell’opinione pubblica democratica romana». Di Gualtieri dichiara di essere «amico». Se è lui lo stratega della sua campagna elettorale, fin qui gli ha procurato un po’ di imbarazzi.

Anni Novanta dalemiani

Ma ripartiamo da capo. Chi è il Mancini del Pd? E perché spinge a tutti i costi per Gualtieri sindaco? Il tesoriere del Pd romano è sponsor dell’ex ministro da sempre. La loro amicizia risale alla comune osservanza dalemiana, negli anni Novanta, quelli in cui Massimo D’Alema aveva il vento in poppa. Mancini raccoglieva un sacco di voti ed era il suo plenipotenziario nella capitale. Qui di nuovo si schermisce: «Sono solo un quadro locale». Vero, il suo è un cursus honorum tutto dentro il partito. Viene eletto per la prima volta in circoscrizione, a Monteverde nel 1989. Ha vent’anni, è un comunista verace, un combattente, figlio di un comunista ciociaro. Gualtieri è anche lui di Monteverde ma ha tutt’altra antropologia. In quegli anni è leader della Pantera all’università di Roma, come Mancini viene dalla Fgci, ma da quella universitaria: quelli che fanno le occupazioni ma la federazione deve mandare i compagni del servizio d’ordine per evitare che prendano le botte dall’Autonomia. Mancini fatica nella politica locale a caccia di voti, l’altro è predestinato alla carriera: secchione, allievo di Giuliano Procacci, diventa subito ricercatore di storia.

Capacità organizzative scarse, quasi nulle, ma colpisce D’Alema per i suoi interventi di rocciosa impostazione gramsciana. Galeotti sono i seminari di Beppe Vacca all’Istituto Gramsci. Nel 2001 i due insieme fondano e dirigono La Lettera, rivista militante con la missione impossibile di conciliare il dalemismo con l’ulivismo.

Guatieri pensa, Mancini fa. E spala voti. Nel 2005 diventa consigliere regionale, nel 2009 l’altro spicca il volo per Bruxelles. In mezzo nasce il Pd e i due fondano la corrente dei Giovani turchi, con Matteo Orfini e Stefano Fassina. Dalemiani di nuova generazione che vanno presto in rotta di collisione con il leader. Alle elezioni del 2014 la faccia di Gualtieri è su tutti i muri di Monteverde. Mancini ha avuto problemi di salute, si espone meno e lavora per linee interne. Ma continua ad avere i voti. Grazie ai quali Gualtieri viene rieletto. E la sua strada svolta: diventa presidente della commissione per i Problemi economici e monetari, poi con tutta la compagnia dei turchi si avvicina a Renzi. Nel 2016 Politico.eu lo definisce uno dei legislatori più efficienti dell’intero parlamento e uno degli otto deputati più influenti.

E Mancini? Mancini anche lui si occupa di soldi, ma nella commissione Bilancio della Pisana. Nel 2010 alla regione vince la destra e comanda Renata Polverini. È rieletto e sta all’opposizione. Ma nel 2012 Polverini si dimette per un fattaccio: scoppia lo scandalo della “feste dei maiali”, un consigliere del Pdl viene accusato di divertirsi sperperando i soldi della regione. Si svela il segreto di pulcinella: un sistema di fondi elargiti ai membri del consiglio e ai gruppi, con generosità bipartisan. Anche alcuni del Pd ci sono dentro. Partono le inchieste e tutti vengono assolti.

Alla regione arriva il ciclone Nicola Zingaretti, che per candidarsi mette come condizione di far fuori tutti gli uscenti Pd. I quali sciamano verso altri incarichi. Molti nel 2013 finiscono in parlamento, non Mancini. Succede che la moglie, Fabrizia Giuliani, filosofa femminista e fondatrice di Se non ora quando, compagna di università e di Fgci di Gualtieri, sia tra le personalità esterne che il segretario Pier Luigi Bersani vuole nelle liste. O l’uno o l’altra.

08/06/2019, Bologna, Palazzo Re Enzo. Ritratto di Nicola Zingaretti, segretario del PD

Mancini fa il cavaliere. Lui in parlamento arriva al giro successivo, nel 2018. L’anno dopo Gualtieri viene rieletto a Bruxelles, ma stavolta non al primo colpo: voti in calo, è il primo dei non eletti alla circoscrizione centro, ma poi viene ripescato perché il plebiscitato Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, viene costretto a optare per la circoscrizione delle isole. Mancini è in commissione Bilancio della Camera quando nel 2019 Gualtieri diventa ministro.

Consigliere ombra

E qui comincia la sua vicenda ministeriale. Mancini, che nel frattempo ha aperto e venduto una società che si occupa di estrazione di sale (l’Espresso ha raccontato che la vendita arriva in seguito a una mail di richiesta di informazioni del settimanale) non ha incarichi al Mef, ma tutti sanno che è un consigliere fidato di Gualtieri. Insieme a un altro amico che invece è chiamato al ministero come capo della segreteria: Ignazio Vacca, figlio di Beppe, storico direttore dell’Istituto Gramsci. Ignazio e Roberto hanno fatto insieme la Pantera, stessa facoltà, Lettere, stesso dipartimento, Storia, stessa Fgci.

Nel 2020 Gualtieri viene eletto deputato alle suppletive di Roma. Mancini è al suo fianco, come sempre. Mandatario della campagna, un amico di entrambi, un altro monteverdino: Fabio Bellini, che è stato anche il rappresentante di Mancini alle primarie per la segreteria del Pd regionale del 2018. Finita male per Mancini: il potente Bruno Astorre, franceschiniano, lo straccia con il 70 per cento dei voti, frutto della sempreverde potenza degli ex Dc nella regione ma anche della benedizione dell’allora segretario Zingaretti. E siamo a oggi. Se Gualtieri farà il candidato sindaco, Astorre lo sosterrà. Così va il Pd. Se invece toccherà a Zingaretti, Gualtieri sarà il capo della sua campagna elettorale. La decisione è ormai questione di ore.

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