In casa non ha un solo atto giudiziario, una carta, un documento dello stato italiano sul figlio che le hanno ammazzato. Neanche una notifica a presentarsi in Tribunale, uno straccio di avviso per un’inchiesta che non è mai finita e per un processo che non è mai iniziato. La sua casa è a San Lorenzo, quartiere in mezzo a una distesa piatta circondata da piccole alture, la Piana dei Colli, dove i palazzi di Vito Ciancimino hanno sepolto le ultime ville di tufo giallo del Settecento.

Via Astorino è fra via Florio e via Fattori, giù c’è largo Bongiovanni e un po’ più in là c’è via Claudio Domino, la strada che ha preso il nome di suo figlio. Racconta Graziella: «A me proprio non piaceva che avessero intitolato una via a Claudio, mi faceva stare male perché Palermo era una città piena di lapidi e mi intristiva che pure Claudio potesse diventare una lapide. Ma con il passare del tempo ho capito che avevano ragione loro, quei tremila abitanti di San Lorenzo che hanno firmato una petizione al sindaco Orlando per ricordare il mio bambino».

Graziella Accetta è la moglie di Antonio "Ninni” Domino, madre di Giuseppe e di Laura e dell’altro suo bambino che era Claudio, ucciso in una sera di ottobre del 1986 in una Palermo avvolta nel silenzio mentre si stava celebrando il maxi processo alla mafia.

Ignoto ancora oggi il killer che gli ha sparato, mai scoperti i mandanti. Graziella non sa niente, non le hanno mai detto perché Claudio è morto con una pallottola calibro 7,65 in mezzo agli occhi. Claudio aveva undici anni.

L’uomo con il casco

A San Lorenzo c’è ancora la cartolibreria dei Domino ma non è più dei Domino. Come non è più loro il negozio di articoli sanitari che era lì vicino, a San Lorenzo non ci sono più nemmeno gli uffici della “Splendente”, la ditta di pulizia con milletrecento dipendenti che appena l’anno dopo l’omicidio del bimbo di impiegati ne aveva solo tre e due anni dopo neanche uno. Chiusa, tutti licenziati, non c’era più lavoro. E nessuno che invitava alle gare il padre e la madre di Claudio Domino, l’ultimo appalto vinto era quello delle pulizie dell’aula bunker. Un appalto maledetto.

La sera del 7 ottobre 1986, poco dopo il tramonto, la vita di Graziella e di Ninni è cambiata per sempre. Il momento preciso, le 20,45: «Quando con la coda dell’occhio ho intravisto una moto, una Kawasaki verde, che sfrecciava in via Astorino e che sfiorava il marciapiedi proprio davanti alla nostra cartolibreria».

Un attimo prima Claudio era con lei. Le aveva chiesto se poteva andare a casa con un suo amichetto, se poteva passare prima a salutare la sua compagna di classe Roberta e rientrare in tempo a casa per i cartoni animati.

«Claudio tu vai, noi fra poco chiudiamo e siamo quasi pronti per la cena». Poi un botto. «A me è sembrato il botto di una marmitta, la marmitta di quella moto verde che avevo notato qualche istante prima».

Non era lo scoppio di una marmitta, era un colpo di pistola. Il motociclista aveva il volto coperto dal casco, ha fermato la sua Kawasaki a un metro da Claudio e dall’altro bambino, poi ha detto: «Claudio, vieni». L’ha chiamato per nome. Claudio si è avvicinato ed è crollato a terra: un solo colpo in fronte. La Kawasaki verde è volata via, verso i viali che portano allo Zen.

L’ultima volta che la mamma ha visto suo figlio vivo è all’angolo di via Astorino, prima che girasse l’angolo per scendere verso casa. L’altro bambino è rimasto impietrito per alcuni secondi e quando il motociclista è scomparso, a piccoli passi, come un automa, è tornato indietro in direzione della cartolibreria. «Hanno sparato a Claudio, hanno sparato a Claudio».

Ninni, il padre, lo ha accarezzato e gli ha sorriso: «Ma che dici?, che dici?». Lei, Graziella, non ha parlato e ha cominciato a correre lungo via Astorino per poi deviare sull’altra strada. Davanti all’istituto “Ignazio Florio”, la scuola media che Claudio frequentava da due settimane, ha trovato suo figlio a terra: «Ma Claudio non c’era più, respirava ancora ma non c’era più, in ospedale è arrivato senza vita». Una delle tante vittime di Palermo, un piccolo morto di una grande guerra.

Il proclama di Bontate

Da via Astorino a via Remo Sandron – dove c’è l’ingresso dell’aula bunker, una gigantesca costruzione in ferro e cemento con trentuno gabbie e un passaggio sotterraneo che le collega al carcere dell’Ucciardone – ci sono cinque chilometri. È dall’altra parte di Palermo. In quell’ottobre del 1986 nelle gabbie sono rinchiusi più di quattrocento mafiosi, capi e sottocapi delle famiglie di Cosa Nostra. C’è Pippo Calò, c’è Luciano Liggio, ci sono i Buffa, i Marchese e i Bruno, i Filippone e i Mineo, c’è Tommaso Spadaro, ci sono i Prestifilippo e i Greco.

Sono tutti gli imputati rinviati a giudizio da Giovanni Falcone, è il primo grande processo alla mafia siciliana. La città è con il fiato sospeso, non si muove nulla, non una rapina, un furto, un rumore. Cosa Nostra ha dato l’ordine di mantenere l’ordine: durante il dibattimento non deve succedere niente che possa disturbare la quiete di Palermo e danneggiare i mafiosi in attesa della sentenza.

E così è, dalla mattina del 10 febbraio del 1986 – giorno di apertura dell’aula bunker con la prima udienza davanti a seicento giornalisti provenienti da ogni angolo di mondo – alla sera del 7 ottobre.

Poi quel colpo in mezzo agli occhi di un bambino di undici anni. Graziella e Ninni sono schiantati dal dolore. Non capiscono. Continuano a ripetere: «Perché a noi? Perché proprio a nostro figlio?». Non passano neanche quarantotto ore dalla morte di Claudio e nell’aula bunker dell’Ucciardone il presidente della Corte di Assise Alfonso Giordano volta lo sguardo verso una gabbia, il giudice a latere Pietro Grasso è anche lui molto sorpreso, c’è un detenuto che vuole parlare. È Giovanni Bontate, avvocato, fratello di Stefano, il capomafia di Palermo fatto fuori dai Corleonesi. L’avvocato non ha aperto bocca da quando è cominciato il maxi processo, ma quella mattina vuole dire per forza qualcosa.

Nell’aula bunker non vola una mosca, tutti i mafiosi sono aggrappati alle sbarre, Giovanni Bontate scandisce lentamente le parole: «Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare». Poi il colpo di scena: «Signor Presidente, chiedo che venga rispettato un minuto di silenzio in memoria del bambino ucciso». Più che un proclama, come ci avevano abituato i terroristi rossi durante i processi degli anni Settanta e Ottanta, è una pubblica presa di distanza dall’omicidio di Claudio con una clamorosa ammissione.

C’è un mafioso che confessa “non siamo stati noi”, un “noi” che è l’implicito riconoscimento dell’esistenza di qualcosa che gli stessi mafiosi hanno sempre negato: la mafia. Dalle altre gabbie non si leva un soffio, nel bunker cala un’atmosfera cupa.

Giovanni Bontate si risiede sulla panca, pienamente consapevole di ciò che ha appena detto. I giudici sono frastornati, intuiscono che nell’aula bunker è andato in scena per la Sicilia di quei tempi un piccolo grande “evento”. Il dibattimento riprende ma Bontate non si riprenderà mai. Sarà ucciso, insieme alla moglie Francesca, pochi giorni dopo la sua scarcerazione, nel settembre del 1988. Movente: quel “noi” di troppo, pronunciato davanti al popolo mafioso.

Ma perché un boss come Bontate fa quella mossa? Perché legge un messaggio che è la sua condanna a morte? Mentre lui è ancora nell’aula bunker gli investigatori di Palermo rovistano nella vita di Graziella e Ninni Domino. L’avevano già fatto un anno prima, quando avevano presentato domanda per la gara d’appalto delle pulizie al ministero della Giustizia. L’avevano fatto a luglio, quando “La Splendente” l’aveva vinta. Una famiglia trasparente. Fedina penale immacolata per entrambi, nessuna parentela sospetta, nessun contatto con personaggi in odore di mafia.

Tant’è che i dipendenti della loro ditta di pulizie, maniacalmente controllati uno per uno dai reparti investigativi antimafia, entravano e uscivano a ogni ora da un luogo proibitissimo, l’aula dove si celebrava il maxi processo. Ricorda Graziella: «E dopo l’uccisione di Claudio hanno ricominciato a indagare su di me e su mio marito, mio figlio è stato ammazzato e cosa succede?, che sotto inchiesta finiamo noi». L’appalto delle pulizie al bunker è la sola pista che seguono nelle prime settimane. Si vagliano le ipotesi. I mafiosi detenuti hanno chiesto un favore ai Domino e, ricevuto un rifiuto, si sono vendicati sul bambino? Forse il diniego c’è stato per la trasmissione di un messaggio all’esterno del carcere? O è stata una ritorsione perché i Domino avevano accettato quell’appalto per la pulizia dell’aula bunker? Congetture, solo congetture.

Dal ventre del quartiere

Poi di pista ne spunta un’altra: Claudio è stato testimone di qualcosa e l’hanno ammazzato. Dal ventre del quartiere San Lorenzo si diffonde la voce che il bambino abbia visto, mentre giocava a pallone con i suoi amici, confezionare bustine di eroina in un magazzino. A trafficare sarebbe stato il proprietario di una rosticceria, tale Salvatore Graffagnino, che avrebbe poi incaricato un tossico di eliminare il piccolo Claudio.

S’indaga su Salvatore Graffagnino, ma due mesi dopo l’uomo scompare. Sequestrato, il suo cadavere non si troverà mai. Punito per avere ordinato la morte del bambino? I poliziotti di Palermo mettono sottosopra San Lorenzo quando si fa strada un’altra ipotesi ancora: Claudio avrebbe sì visto qualcosa ma non buste di droga, bensì il rapimento due uomini, Paolo Salerno e Sergio Di Fiore, due implicati in un traffico di droga. A San Lorenzo scompaiono anche un impiegato di banca e un capocantiere. Tutti vittime della lupara bianca.

Il maxi processo finisce nel dicembre del 1987 con 19 ergastoli e pene detentive per 2665 anni, a Palermo tornano gli omicidi “interni”, cinque imputati uccisi appena scarcerati dall’Ucciardone.

Del bambino di San Lorenzo non si parla più. L’inchiesta è ferma. Poi c’ è la stagione della stragi e arrivano in massa i pentiti. C’è chi svela anche qualche dettaglio sulla morte di Claudio Domino. Il primo è Totò Cancemi, uno della Cupola: «Subito dopo l’omicidio di Claudio Domino, Totò Riina riunì la Commissione e ordinò che tutti noi dovevamo impegnarci a scoprire i colpevoli e punirli». Dopo Cancemi, ecco Giovanbattista Ferrante, uno dei killer della strage di Capaci: «Sono stato io ad uccidere Salvatore Graffagnino e l’ordine mi fu dato da Giovanni Brusca».

Un “omicidio pedagogico”

Dentro Cosa Nostra – dicono sia Cancemi che Ferrante – l’uccisione di Graffagnino fu definito “un omicidio pedagogico”. Siamo nella prima metà degli Anni Novanta e si fa largo l’idea (solo l’idea, perché le indagini sono sempre impantanate e le dichiarazioni di quei pentiti non verranno mai riscontrate) che per il piccolo Domino giustizia è stata fatta. Dalla mafia. Un vecchio stereotipo che funziona sempre. La mafia che ha un suo codice di onore, la mafia che non uccide i bambini, la mafia che presenta il conto quando lo stato non ce la fa a imporre la sua legge. E così avviene per Claudio Domino, “vendicato” nientemeno che da Totò Riina, lo stesso capo dei capi che voleva organizzare in pieno giorno una strage nel centro di Trapani e, alle rimostranze di qualcuno dei suoi («Lasciamo stare potrebbero esserci anche dei bambini») Riina rispose: «Bambini? Con tanti di quei bambini che muoiono a Sarajevo, perché ce ne dobbiamo preoccupare proprio noi di Corleone?».

Ma non importa ciò che vero, il verosimile è più che sufficiente per veicolare l’immagine di una Cosa Nostra “buona” e del castigo inflitto da Totò Riina ai colpevoli. Quelle parole dell’avvocato Bontate, pronunciate nell’aula bunker, poi stavano a “dimostrare” che le cose erano andate per quel verso.

Ma non c’è una prova, non c’è ancora una verità ufficiale. In una casa di San Lorenzo il dolore intanto non passa mai.

Graziella e Ninni sono sempre più soli, hanno perso il figlio, hanno perso tutto. Graziella: «Ogni notte, per quasi trent’anni ho cercato un perché, mi sono disperata, non ho mai creduto alla favola della mafia che non uccide i bambini, ne ho contati 107 compreso Claudio caduti per mano mafiosa».

La mafia tocca i bambini

È l’interminabile elenco dei piccoli uccisi da Cosa Nostra. Dal pastorello Giuseppe Letizia assassinato – si dice per avere visto gli autori del sequestro del sindacalista Placido Rizzotto – con un’iniezione praticata dal boss medico di Corleone Michele Navarra al dodicenne Paolino Riccobono ammazzato a Palermo nel ’61 solo per il cognome che portava, dai gemelli Giuseppe e Salvatore Asta saltati in aria con la mamma Barbara nel 1985 quando volevano morto il giudice Carlo Palermo ai tre picciriddi catanesi di San Cristoforo fatti sparire perché avevano rubato la borsetta alla madre di Nitto Santapaola. Gli incubi inseguono Graziella e Ninni, padre e madre non trovano pace.

Fino a quando, un giorno, la donna casualmente legge un articolo su un giornale. E si apre tutta un’altra storia.

È la vicenda di un mafioso, Luigi Ilardo, che nei primi Anni Novanta diventa confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, agente sotto copertura in operazioni sul crimine. Secondo il colonnello, Ilardo voleva fargli catturare Bernardo Provenzano allora latitante, ma fu fermato dai suoi superiori. Qualche giorno prima che il mafioso formalizzasse il suo passaggio a collaboratore di giustizia, i sicari lo stendono con nove colpi di pistola. I mafiosi sapevano tutto: una spiata tradisce l’informatore. Graziella legge una dettagliata cronaca che comincia con le parole di Luigi Ilardo, riportate dal colonnello Riccio ai magistrati di Palermo: «Molti dei delitti attribuiti a Cosa Nostra sono stati voluti dallo Stato».

Poi qualche nome: «Ilardo lo chiamava “Faccia da Mostro”, una persona alta e di brutto aspetto che faceva parte dei servizi segreti ed aveva un ruolo negli omicidi avvenuti a Palermo dell’onorevole Pio La Torre, del commissario Ninni Cassarà, del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, e poi del bambino Claudio Domino». Graziella trema ma continua a leggere: «Ilardo mi fece riferimento, proprio per la morte di Domino, ai suoi contatti di Cosa Nostra palermitana... gli avevano riferito che ci fu la ricerca di un personaggio che doveva appartenere alle istituzioni italiane, il quale aveva fatto un po’ da supervisore e forse aveva anche avuto qualche parte attiva in questi attentati, specialmente in quello di Domino...».

Faccia da Mostro

La donna è stordita, paralizzata. Ricorda: «E’ stato quattro anni fa che sono venuta a conoscenza dell’esistenza di quest’uomo chiamato Faccia da Mostro e che, secondo quell’informatore dell’ufficiale dei carabinieri, avrebbe ucciso Claudio. Nessuno mi aveva mai detto niente prima, nessun magistrato mi aveva informato sullo sviluppo delle indagini sulla morte di mio figlio...».

Graziella comincia a cercare in rete, a chiedere agli amici. Scopre che c’è un pentito calabrese dalla controversa attendibilità – Nino Lo Giudice – che riferisce di avere appreso proprio da Faccia da Mostro dell’uccisione “di un bambino a Palermo il cui padre lavorava all’aula bunker”. Scopre che pure che altri quattro pentiti raccontano dell’uomo chiamato Faccia da Mostro. Riesce anche a vederlo da vicino, il 26 febbraio del 2016, nell’aula bunker dell’Ucciardone dove Faccia da Mostro è sottoposto a un confronto “all’americana” con Vincenzo Agostino, il padre di un poliziotto assassinato a Palermo.

Ma Graziella Accetta non avrà più modo di sapere altro su quell’uomo. Perché Faccia da Mostro, al secolo Giovanni Pantaleone Aiello nato a Montauro il 3 febbraio del 1946 muore a Montauro per un infarto il 21 agosto del 2017. Si accascia improvvisamente in spiaggia, sulla costa ionica calabrese, in provincia di Catanzaro. Faccia da Mostro se ne va misteriosamente come era venuto.

Oggi Graziella Accetta, con l’indagine in qualche modo riaperta, vuole solo conoscere il perché: «Non voglio vendetta ma dallo Stato pretendo giustizia... non ho mai creduto alla messinscena di trentacinque anni fa all’aula bunker con quel discorso di Giovanni Bontate, penso piuttosto che con l’omicidio di Claudio i boss che stavano fuori volevano inchiodare quelli che stavano dentro... magari con l’aiuto di qualcun altro».

Alla fine della primavera scorsa Graziella è andata a protestare sotto il tribunale di Palermo per il lungo silenzio intorno alla morte di suo figlio.

Qualche giorno dopo il procuratore capo Francesco Lo Voi l’ha ricevuta insieme al marito: «Al procuratore ho detto che non mi basta conoscere chi ha premuto il grilletto, voglio sapere chi ha voluto morto Claudio. Il procuratore mi ha promesso che mi convocherà ancora al plazzo di Giustizia, formalmente, finalmente sarò ascoltata». Per la prima volta dopo trentacinque anni.

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