«Il Qatargate non è uno scandalo europeo, è uno scandalo italiano. Tutti i protagonisti sono italiani o di origine italiana, e chi non lo è (come la vicepresidente del parlamento, Eva Kaili) è stato coivolto da italiani. Lo dico perché la propaganda della destra tenta di descrivere un’Europa tutta corrotta. Le cose non stanno così. Si tratta di alcuni italiani che avrebbero svenduto le istituzioni europee in cambio di denaro. I socialisti europei e il Pd non c’entrano nulla. Quella che c’entra è una filiera specifica della sinistra italiana, quella che faceva capo a D’Alema, che è uscita dal Pd per fondare Articolo 1, al quale apparteneva Antonio Panzeri, il principale indagato. Non si capisce perché allora il Pd, che non è coinvolto per niente, dovrebbe, come chiede qualcuno, addirittura anticipare il suo congresso e dedicarlo alla questione morale. Forse ciò appagherebbe quanti, politici o giornalisti, vivono solo se agitano la questione morale come un drappo rosso».

Esordisce così Claudio Martelli, uno dei Grandi Vecchi della sinistra italiana, in una conversazione che parte dal quarantesimo anniversario della conferenza programmatica di Rimini dedicata al merito e al bisogno, ma che inevitabilmente plana sull’attualità.

Attribuirgli la qualifica di Grande Vecchio per me – che ho cominciato a fare il cronista politico del Manifesto negli anni Ottanta - è spaesante. Eh sì, perché nella mia memoria la sua immagine coincide invece con quella dell’astro nascente, espressione di una giovane generazione di politici.

Nato nel 1943 a Milano, iscrittosi al Pri a 13 anni, poi socialista, laureato in filosofia e assistente universitario, era in quegli anni il quarantenne più lanciato della politica italiana. Era l’immagine stessa del rinnovamento generazionale e della modernizzazione del Psi avviate nel 1976 da Bettino Craxi, di dieci anni più vecchio di lui.
Bettino per noi cronisti era Il Cinghialone (epiteto che in realtà celava l’ammirazione per un leader capace di fare grandi cose con un piccolo partito): rude e spiccio, dai modi bruschi, irruento, fisicamente alto e possente. Claudio era Il Delfino: giovane, bello, elegante, colto.

Politica sgrammaticata

LaPresse

Alla soglia degli ottant’anni, dopo aver fatto di tutto, da vicesegretario del Psi, a ministro della giustizia e vicepresidente del consiglio, oggi dirige L’Avanti quindicinale e non smette di scrivere e ragionare sulla sinistra italiana. Tornando al Qatargate, Martelli spiega: «Il tema molto serio riguarda il lobbysmo che può diventare molto più grave della corruzione semplice, perché è il voto dei parlamentari che viene venduto. Le autocrazie non da oggi usano questi strumenti per infiltrarsi nelle istituzioni democratiche. La vera emergenza è questa: la svendita di un patrimonio di valori, perché parliamo di alterazione della verità su come in questi stati e in queste autocrazie siano calpestati i diritti umani. L’Europa non è responsabile ma è la vittima di questi lobbisti».

Il suo ragionamento poi torna al Pd: «Sono impressionato dal fatto che un partito  importante come il Pd, dopo la sconfitta elettorale, non si sia dato un luogo dove svolgere un’analisi del voto. Manca la grammatica della politica. Credo che il Pd debba anzitutto disintossicarsi perché Enrico Letta, ai tanti errori ereditati ha aggiunto quello di fare politica con il rancore e questo non porta da nessuna parte: “La politica non si fa con i risentimenti”, diceva a noi giovani il vecchio Pietro Nenni. Il Pd corre seriamente il rischio di finire in una deriva di sinistra parolaia e inconcludente».

Forse a una sinistra in cerca di una identità tornare a ragionare di quel lontano convegno che nel 1982  voleva fornire al nuovo corso socialista un moderno profilo riformista sarebbe più utile dei richiami a Lenin e alla “strategia rivoluzionaria”, emersi nella surreale prima riunione dei Saggi che dovrebbero riscrivere la carta dei valori del Pd, raccontata benissimo da Daniela Preziosi su Domani. «Lo scopo di quella conferenza», racconta Martelli, «era di passare alla pars costruens del nuovo corso socialista.  I conti a sinistra li avevamo fatti, avevamo messo in chiaro chi avesse ragione e chi torto tra il socialismo democratico e il socialismo reale. La sfida all’egemonia culturale della sinistra, a partire dal famoso saggio di Craxi su Marx e Proudhon, era stata lanciata, ora dovevamo passare alla parte propositiva. Dal 1976, soprattutto per iniziativa di Mondo Operaio, diretto da Federico Coen, furono lanciate tante nuove idee, a partire dalle riforme istituzionali e costituzionali, con la proposta di un presidenzialismo che Pri e Pda avevano già avanzato nella Costituente». 

A scorrere i nomi dei partecipanti (da Giorgio Ruffolo a Francesco Forte a Federico Mancini solo per fare alcuni nomi) colpisce l’intreccio fortissimo che esisteva allora a sinistra tra politica e cultura. Non era immaginabile  un partito senza cultura politica. Osservando oggi la discussione nella sinistra, tutta selfie, post e cinguettii, forse si capisce perché si trovi nello stato in cui è: «Le politiche si dovrebbero fare a partire dalla realtà. Oggi non mancano le ricerche sociologiche, è che la ricerca non implementa più la politica. Ci sono montagne di ricerche ma nessuno che provi a trarne una proposta politica generale. Per esempio, la sinistra ha certamente sbagliato a non parlare di lavoro», afferma Martelli, «ma mi domando se sappia cos’è il lavoro oggi in Italia. Sarà difficile certo, ma ci si dovrebbe almeno provare».

Necessità di mediazione

Torniamo al convegno di Rimini: «Avvertivamo la necessità di  una nuova analisi della società. Cosa proponiamo al posto della sociologia pietrificata delle classi? Anche noi socialisti ci eravamo riempiti la bocca di discorsi sulla classe operaia che nel frattempo su era ridotta drasticamente; la società italiana non era composta, come agli albori del movimento socialista, da una maggioranza di proletari. La spinta di quelle masse fu istituzionalizzata in tutta Europa nella costruzione del welfare dalla socialdemocrazia, che in Italia era rappresentata dal Psi e da una parte del mondo cattolico, quella sindacale. Ricordo, per esempio, due grandi riformisti come il socialista Giacomo Brodolini e il democristiano “sociale” Carlo Donat Cattin, padri dello Statuto dei diritti dei lavoratori negli anni Settanta. Ma quella formula fortunata dell’alleanza riformatrice tra il merito e il bisogno l’ho pensata una dozzina d’anni dopo, in piena restaurazione liberista ed esprimeva la necessità di una mediazione positiva tra l’istanza socialista e quella liberale che naturalmente confliggono. Non è un talismano e non è una fusione tra i due concetti. Cos’è il merito? Se è ciò che ti fa vincere nella corsa della vita anche se vieni da condizioni di disagio, anche il merito (sostiene Michael Sandel nel saggio La tirannia del merito) è una lotteria, dal momento che i talenti o li hai o non li hai in natura. Io credo che invece il criterio del merito sia fondamentale per promuovere più parità nelle condizioni di partenza e purché ci si assuma anche l’onere di emancipare l’area vasta del bisogno. Già allora mi resi conto che il problema dell’Italia non è tanto e solo la crescita delle diseguaglianze relative tra i ceti sociali, quanto quella della povertà assoluta che coinvolge un numero troppo elevato di persone. È una parte di società che va “redenta”, per usare un linguaggio religioso,  con politiche attive. Se separi e contrapponi i due concetti il merito diventa prevalere della tecnocrazia e il bisogno scade nell’assistenzialismo, che è quanto è avvenuto in questi anni nei quali abbiamo avuto sia tecnocrazia che assistenzialismo. Una deriva che infatti ci ha precipitato nel populismo».

Temi che attraversano anche il congresso Pd e chissà che qualcuna di quelle idee, o quel metodo non possano servire. «Talvolta il Pd vi ha fatto riferimento. Qualche anno fa ci fu una divertente polemica tra Matteo Renzi e Massimo D’Alema: mentre il primo esaltava il merito il secondo gli replicò: almeno Martelli parlava di merito e bisogno, tu sei più a destra».  

Panorama europeo

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Se si guarda all’Europa la fine del Pd, secondo Martelli, non è inevitabile: «Ci sono socialdemocrazie che si riprendono come la Spd che era data per morta dopo dieci anni passati fornendo i vice della Merkel. L’Spd ha rotto quell’alleanza, non la ripropone più, ha fatto una campagna efficace e ha vinto. Lo stesso si può dire del Labour. Ho letto il discorso di Keir Starmer al congresso dei laburisti inglesi: bello, essenziale, con giuste punte polemiche verso quel che ha combinato Corbyn, rifuggendo dalla tentazione tipica dei partiti di sinistra che quando perdono le elezioni si spostano più a sinistra e le perdono ancor di più. Andiamo all’essenziale. Il compromesso socialdemocratico nasce anzitutto nel rapporto tra il partito e il sindacato. Se, a seguito dell’autonomia sindacale, i lavoratori iscritti al sindacato si depoliticizzano essi sono inevitabilmente attratti dal populismo. Il Pd deve rispondere alla domanda se vuole essere un vero partito socialdemocratico con un radicamento forte nel moderno mondo del lavoro (non solo, ma anzitutto dei lavoratori dipendenti), o chiudersi nel recinto di una sinistra inconcludente e parolaia».

C’è un’altra questione dirimente, secondo Martelli: «Dal punto di vista delle alleanze internazionali vedo che c’è in una parte del Pd la tentazione di farsi trascinare da Fratoianni, il che susciterebbe anche un po’ di tenerezza, non fosse che siamo nel contesto di una guerra contro l’Ucraina. Non una guerra in Ucraina, nella quale si può stare un po’ di qua e un po’ di là, ma una guerra russa contro l’Ucraina.  Ho trovato molto pertinente l’osservazione fatta di recente da Enrico Mentana secondo il quale il pacifismo italiano è fatto in prevalenza da persone che interpretano il pacifismo come “lasciatemi in pace” e ficcano la testa sotto la sabbia».

Secondo Martelli in questo atteggiamento affiora anche qualcosa di più profondo e pericoloso: «In occidente, afferma in un recente saggio Paul Hollander (Intellettuali e fascismi edito da Linkiesta), subiamo il fascino dei capi autoritari, come Putin. Sentimento che coinvolge alcuni intellettuali di sinistra, ma anche quello che una volta si sarebbe chiamato “il popolino”.  È la debolezza dei leader che produce il bisogno della forza. Se i leader di sinistra fossero forti, autorevoli, capaci  di ascoltare e poi di fare sintesi, senza bisogno di evocare “gli occhi di tigre” che non servono a nulla, forse il popolo subirebbe meno la fascinazione di questi leader autoritari».

Questione di diritti

cecilia fabiano

C’è un altro tema che agita il Pd, il nesso tra diritti civili e diritti sociali. Il Pd viene spesso accusato di aver sopravvalutato i primi e sottovalutati i secondi. Claudio Martelli è stato protagonista di tante battaglie sui diritti condotte spesso in compagnia di Marco Pannella: «Marco Pannella ti prendeva prima un dito, poi la mano, infine tutto il braccio, ma bisognava lasciarlo fare. Marco è indimenticabile, un personaggio straordinario. Un grande leader politico che ha realizzato una parte importante dei suoi obiettivi. E se Loris Fortuna non fosse mancato prematuramente avremmo forse già impostato in modo razionale la questione del fine vita o dell’eutanasia, come io preferisco dire, che fu l’ultima e appassionata battaglia di Loris.  Si ha paura di pronunciare la parola eutanasia, ovvero la buona morte: è meglio allora la morte cattiva, lasciare andare le cose fino alla distruzione nel dolore più atroce di un essere umano? Sono stati fatti passi avanti ma, come sostiene giustamente Marco Cappato, non sono sufficienti. Credo che la destra  tenterà di erigere un muro, ma i muri, prima o poi, finiscono con lo sgretolarsi. Come al tempio del divorzio, l’opinione pubblica è molto più avanti. Tantissime persone hanno dovuto affrontare quest’esperienza con una persona cara».

Il giudizio di Martelli su alcune battaglie combattute dal Pd in questa legislatura è però critico: «Basta guardare a quel che ha combinato sul Ddl Zan contro l’omotransfobia. Non si difendono i diritti di chi si soffre perché è discriminato ignorando il comune sentire dell’opinione pubblica che è pronta a condividere la punizione di atteggiamenti discriminatori soprattutto quando tracimano in atti di violenza personale. Ma dire che bisogna insegnare nelle scuole dell’obbligo a non discriminare senza chiedersi se quelle bambine e quei bambini abbiano già ricevuto una qualche forma di educazione sessuale, significa ignorare la realtà. È stato insensato respingere due emendamenti che non avrebbero stravolto il testo, sapendo che così non sarebbe mai stato approvato, agitando lo slogan “Non si tocca nulla”. Forse Letta, che proviene dal cattolicesimo moderato, voleva coprirsi a sinistra e ha assunto posizioni estremistiche declinate in maniera aggressiva. Prendiamo l’idea dello ius scholae, per concedere la cittadinanza ai bambini nati in Italia. È un’operazione emotiva e non guidata dalla razionalità perché non si capisce per quale motivo al mondo si debba dare la nazionalità ai bambini e la si debba negare ai loro genitori. È un’idiozia. Bisogna dare la cittadinanza a chi vive e lavora in Italia. Feci una legge che prevedeva dieci anni per ottenerla, certamente è troppo, portiamoli a cinque, come hanno fatto in Germania. La sinistra non può vincere contro il buon senso. Il buon senso, dico, non il senso comune».

Lacuna fondativa

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico

Secondo Martelli c’è una lacuna nello stesso atto di nascita del Pd: «È stata assente la cultura laico-socialista che, salvo alcuni singoli esponenti, come Giuliano Amato e Valdo Spini, non è stata minimamente coinvolta. Questa lacuna dovrebbe essere colmata. Ho visto che c’è chi, lo ha fatto Andrea Orlando, ha finalmente nominato la parola socialista. Ha detto che il Pd non può che essere un partito socialista e ecologista e credo che si riferisca al socialismo democratico non a quello reale».

Su questa strada c’è un macigno, però. E ha il nome di Bettino Craxi. Nel pantheon del Pd c’è Sandro Pertini, lui no. «Non dico nel pantheon che non usa più, ma almeno», dice Martelli, «nella hall of fame sarebbe il caso che ce lo mettessero. Ma mi accontenterei di una rivisitazione critica, come merita anche Enrico Berlinguer. Senza approcci e pregiudizi tribali. Quando c’è stata la svolta e poi il cambio del nome del Pci, lo hanno detto Achille Occhetto e Claudio Petruccioli (che di quella svolta furono i principali artefici), alcuni hanno pensato fosse la fine della storia comunista, altri hanno pensato che fosse un escamotage per sopravvivere alla propria storia comunista restando “ditta”. Questo è tribalismo, è un dire “noi siamo noi”, Quando Massimo D’Alema rivendica una sorta di superiorità morale sembra proprio il Marchese del Grillo : “Perché io so’ io e voi nun siete un cazzo”. I capi di questa tribù, anche gli scissionisti, non hanno mai smesso di esercitare un’influenza sul partito e infatti adesso ci stanno tornando. La vocazione terminale della ditta non può che essere quella di trovarsi un papa straniero. Lo ha fatto con Prodi e Rutelli. C’è stata la meteora di Renzi. E ora siamo arrivati a Conte. A Conte, dico».

Ecco il ritratto che traccia Martelli del leader pentastellato: «Un trasformista, che non sembra avere nella responsabilità la sua cifra. Pensa di avere tutto da guadagnare nell’isolarsi ed estremizzarsi. E la destra, dovendo ora governare, gli lascia indubbiamente molto spazio. Il Pd dovrebbe vedere tale rischio e invece fa il contrario. La “ditta” si è esaltata scoprendo finalmente il “leader fortissimo riferimento dei progressisti”. Sono parole che non sono state spese per alcun segretario del Pd, a mia memoria. O forse sì, nel passato, quando c’era il Pci. Ricordo un santino d’epoca con la foto e la didascalia: “Palmiro Togliatti, capo amato dei comunisti italiani”. E allora Pietro Secchia che era il vice, si fece fare un santino in cui aveva fatto scrivere: “Pietro Secchia, vicecapo amato dei comunisti italiani”».  

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