“Questo governo non lavora con il favore delle tenebre”, disse il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il 10 aprile scorso, ma negli ultimi mesi di luce se n’è vista poca. Com’è noto, i verbali del Comitato tecnico scientifico (Cts) – che ha garantito “supporto tecnico” alle attività per il contrasto dell’epidemia di Covid-19 – sono stati resi pubblici da parte della presidenza del Consiglio, ma si è dovuti arrivare al Consiglio di stato per ottenere trasparenza. Al di là del contenzioso, e quindi a prescindere dagli obblighi di pubblicazione previsti dal cosiddetto decreto Foia, Conte avrebbe dovuto adottare comunque un “metodo” decisionale improntato alla trasparenza.

Al di là della qualificazione formale dei Dpcm, cioè degli atti emanati dal presidente del Consiglio per affrontare l’epidemia da coronavirus – tema sul quale si è imperniata la vicenda giudiziaria – e tanto più se si tratta di “atti normativi”, come sostenuto dalla presidenza del Consiglio, vale un principio presente nell’ordinamento: quello della trasparenza delle scelte normative, mediante una valutazione ex ante ed ex post dei loro effetti.

In particolare, la disciplina sull'analisi e verifica dell'impatto della regolamentazione (Air e Vir), che molti anni or sono ha reso questi strumenti obbligatori per governo e autorità di regolazione, chiarisce che la valutazione preventiva degli impatti ha l’obiettivo “di offrire, nel corso dell’istruttoria normativa, attraverso un percorso trasparente di analisi (…) un supporto informativo in merito all’opportunità e ai contenuti dell’intervento normativo”. Dunque, “le amministrazioni procedono all'individuazione e alla comparazione di opzioni di regolamentazione alternative, inclusa quella di non intervento, valutandone la fattibilità e gli effetti previsti”.

In altri termini, l’analisi di impatto consiste nella valutazione ex ante delle conseguenze di ipotesi di intervento normativo ricadenti sulle attività dei cittadini e delle imprese, oltre che sulle pubbliche amministrazioni, mediante la comparazione di opzioni alternative.

Nelle relazioni Air e Vir il “decisore” deve rendere trasparenti i fini perseguiti e le relative motivazioni; le considerazioni poste a base delle proprie scelte; gli obiettivi raggiunti in concreto e le cause di eventuali scostamenti da quanto previsto. Pertanto, la disciplina Air e Vir impone un “metodo” trasparente di regolazione, affinché la discrezionalità del decisore non sconfini nell’arbitrio. E proprio in presenza di restrizioni di libertà fondamentali, come nel corso della pandemia, sorgeva l’esigenza di evitare il sospetto di arbitrii: sospetto che avrebbe potuto essere scongiurato rendendo pubbliche, quindi conoscibili, le valutazioni tecnico-scientifiche idonee a comprovare adeguatezza, necessità, proporzionalità delle misure adottate, nonché ogni altro elemento e criterio utile a dimostrare che il decisore, cioè il presidente del Consiglio, in qualche modo, avesse compiuto un esame di costi e benefici di opzioni alternative al lockdown del paese.

Il principio di trasparenza normativa altro non è che la trasposizione, sul piano del “metodo” della regolazione, di principi democratici e liberali: principi che, attraverso la disciplina Foia e quella della analisi e verifica di impatto della regolazione, trovano riconoscimento e tutela sul piano del diritto. Infatti, solo in ordinamenti non liberali, o comunque connotati da paternalismo, ci si limita a imporre ai cittadini di obbedire e tacere, senza spiegare perché dovrebbero farlo e quali sono i motivi in base ai quali sono state prese nei loro riguardi certe decisioni, anziché altre. Eppure, sin dall’inizio dello stato di emergenza, il presidente del Consiglio ha seguito un “metodo” opposto.

Ricevuti “pieni poteri” dal governo (decreto legge 6/2020), cioè poteri svincolati da precisi paletti sostanziali e temporali per il loro esercizio, al fine di adottare misure per “evitare il diffondersi del Covid-19”, Conte ha iniziato a limitare libertà e diritti – anche quelli comprimibili solo con legge o provvedimenti dell’autorità giudiziaria – senza alcuna trasparenza.

È un “metodo” opaco, infatti, lasciar intendere, come egli ha fatto nelle conferenze stampa, che i Dpcm si conformassero alle considerazioni del Cts e che a esso ci si dovesse affidare. Evitando di renderne noti i verbali, Conte da un lato non ha consentito di verificare in concreto la veridicità delle proprie affermazioni; dall’altro lato, ha fatto passare il messaggio che la scienza non solo non si discute, ma non si deve nemmeno leggere e capire.

In altri termini, il Cts è stato usato come scudo dal vertice dell’esecutivo, il quale in questo modo ha “legittimato” le proprie decisioni, citando pareri scientifici il cui contenuto nessuno poteva verificare. I pareri esibiti hanno poi reso palese che la fedeltà a essi delle scelte compiute non era così stretta come il presidente del Consiglio pareva sostenere. Ma, discostandosi dalle opinioni del Comitato, egli avrebbe dovuto rendere noti, cioè trasparenti, i differenti parametri in base ai quali decideva.

Era sacrosanto che il capo del governo operasse scelte “politiche”, non conformandosi del tutto alla scienza, ma il “metodo” della trasparenza avrebbe richiesto che egli spiegasse chiaramente come calibrava la bilancia con cui “pesava” gli interessi in gioco (sanitari, economici, sociali ecc.), cioè quali criteri utilizzava per valutarli e confrontarli tra di loro, operando con i minori costi e i massimi benefici. Ciò sarebbe stato necessario a un fine essenziale: delimitare il suo “potere”. Infatti, la trasparenza di tali criteri decisionali avrebbe consentito a chiunque di sindacarne il rispetto, tanto più in presenza di provvedimenti con le quali si sono compressi diritti e libertà, come per l’emergenza Covid-19. L’opacità può, invece, indurre i cittadini a ritenere che, specie durante un’emergenza, il titolare del potere politico può agire come vuole.

Un’altra ragione avrebbe dovuto suggerire un “metodo” improntato alla trasparenza: le indicazioni – in relazione a decisioni prese da molti paesi per contenere il virus – di David Kaye, relatore speciale delle Nazioni unite sul diritto alla libertà di opinione ed espressione , che ha esortato “i governi a (…) garantire che tutti gli individui, in particolare i giornalisti” avessero “accesso alle informazioni"; nonché di Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, secondo la quale la pandemia non poteva essere la scusa per limitare “l’accesso delle persone alle informazioni”.

Da Conte e da altri ministri, che hanno assunto decisioni rilevanti, ci si sarebbe aspettati che pubblicassero “proattivamente” – cioè senza necessità di richieste di trasparenza provenienti dai cittadini – ogni documento utile sui siti web delle amministrazioni interessate, per far meglio comprendere le loro scelte. In questo modo, si sarebbero anche evitate le numerose istanze Foia avanzate in questi mesi da diversi soggetti e su vari temi.

Peraltro, era noto che i termini dei procedimenti amministrativi, anche di quelli Foia, erano stati sospesi - prima fino al 15 aprile (decreto Cura Italia), poi fino al 15 maggio 2020 (decreto Liquidità) – salvo che le amministrazioni li reputassero “urgenti”: se fossero stati divulgati spontaneamente gli atti posti a base delle decisioni prese durante il lockdown, si sarebbe fatta subito trasparenza, senza far attendere per mesi le risposte – anzi i rifiuti - degli uffici competenti.

Infine, Conte avrebbe dovuto ricorrere alla trasparenza per un altro motivo che, nella sostanza, compendia quelli precedenti: dimostrare accountability, vale a dire la credibilità che contraddistingue chi rende conto del proprio operato in modo chiaro, assumendosene la responsabilità. Infatti, per essere accountable, ogni soggetto che svolga attività destinate ad avere impatti sulla collettività deve seguire un “metodo” idoneo a consentire che i propri comportamenti siano pubblicamente verificati e, di conseguenza, che la sua responsabilità sia valutata con piena cognizione.

L’accountability dei decisori, e non soltanto, si sostanzia mediante il controllo che qualunque interessato può fare sui loro atti e sulle motivazioni che ne sono a fondamento. E questo controllo può essere effettuato solo se i compiti istituzionali sono svolti in modo trasparente. La trasparenza, dunque, è non solo un fine, ma un mezzo, oltre che un “metodo”, come visto.

Può dirsi che esista una cultura dell’accountability in Italia? E cosa pensare di quei parlamentari – oltre a soggetti diversi - che, nonostante percepissero entrate mensili, hanno chiesto l’erogazione di un bonus il cui fine era quello di dare sostentamento a chi si trovasse in una situazione di disagio economico? Possono dirsi accountable coloro i quali, pur agendo forse in conformità al diritto, si comportino in modo tale da nuocere a chi in una situazione di bisogno ci si trova realmente, usando per il proprio arricchimento risorse pubbliche destinate a finalità diverse?

E quale accountability hanno quei legislatori i quali prima hanno voluto una legge destinata a veicolare velocemente denaro, i cui eventuali effetti – vale a dire anche le distorsioni che si sono verificate – erano prevedibili ex ante, e poi si sono lamentati che quegli effetti si siano davvero prodotti? Ed è accountable un paese ove si continua a invocare la lotta alla burocrazia, ma senza un sistema di verifica preventiva di requisiti dettagliati, previsti da normative oltremodo minuziose, la cui “burocraticità” poi si stigmatizza, vi sia sempre qualcuno – in ogni ambito e a ogni livello - che si approfitta della situazione?

Sono domande retoriche, com’è evidente. Se la lingua esprime la cultura di un popolo, accountability non è un concetto radicato nella cultura italiana, la cui lingua non ne consente nemmeno la traduzione, se non con un “giro” di parole. E non è, quindi, una “presa in giro” anche quella trasparenza tanto vantata da chi mostra di non sapere come le “tenebre” vadano schiarite veramente?

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