Se c’è un ritornello che Giorgia Meloni ripete sin dalla sua elezione, è quello sulla cosiddetta paura della firma. «La paura della firma inchioda la nazione», ha detto nel suo primo intervento all’Anci da presidente del Consiglio nel novembre 2022.

Tradotto: il paese sarebbe fermo perché gli amministratori pubblici sono terrorizzati dal firmare gli atti che competono loro, temendo conseguenze giudiziarie sia penali che contabili. Conseguenze che – è il sottinteso di Meloni – sarebbero ingiuste.

Il risultato, tre anni dopo quella dichiarazione, è che gli amministratori pubblici stanno per essere sollevati da quasi ogni responsabilità. Con buona pace di ogni controllo su come viene speso il denaro pubblico e, soprattutto, delle regole europee di monitoraggio dei fondi Pnrr.

L’abuso d’ufficio

La mossa, orchestrata direttamente da palazzo Chigi sotto l’occhio attento del sottosegretario Alfredo Mantovano, ha avuto due step.

Il primo, già riuscito con il via libera definitivo nel luglio 2024, è stato l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, ovvero il reato che spesso veniva contestato agli amministratori pubblici, sindaci e governatori.

Un reato effettivamente fumoso nella configurazione, ma che era stato già circoscritto e modificato nel 2020 proprio per dargli maggiore chiarezza. Il governo e in particolare il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha dato il nome alla proposta di legge, hanno brindato all’eliminazione di un reato che il guardasigilli ha definito afflittivo sul piano mediatico e poco incisivo su quello giudiziario.

Il risultato, però, è un imponente buco nel sistema penale, perché in questo modo non vengono più perseguite tutte le condotte degli amministratori che, nell’esercizio delle loro funzioni, si procurino volontariamente un vantaggio illecito o provochino danni ad altri.

Lo ha spiegato a Domani in un’intervista il professore di procedura penale, Gian Luigi Gatta: «Non saranno più punibili almeno tre condotte di malaffare nella pubblica amministrazione. L’abuso di vantaggio, che prevede la strumentalizzazione del potere da parte del pubblico ufficiale per fini personali. Il più odioso abuso di danno, nel caso di un pubblico ufficiale che abusi del suo potere per provocare un danno ingiusto a un cittadino. Ma soprattutto l’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, che di fatto era una tutela rispetto al conflitto di interessi».

Evidente il rischio di incostituzionalità rispetto ai trattati internazionali e in particolare alla convenzione di Merida, il governo ha introdotto il reato di peculato per distrazione, per far rimanere illecita la specifica condotta dei pubblici ufficiali che distraggono fondi, destinandoli ad un uso diverso da quello previsto per procurare ingiusto profitto o danno ad altri.

Troppo poco però, tanto che l’abrogazione è già finita davanti alla Consulta, che il prossimo 7 maggio si pronuncerà sulla sua costituzionalità, discutendo più di dieci ordinanze arrivate da altrettanti tribunali.

Eppure, ad oggi il governo annovera tra le sue maggiori vittorie sul piano delle riforme di giustizia proprio l’aver sgravato i colletti bianchi dalla paura di procedimenti penali per abuso d’ufficio.

E non c’è per ora traccia concreta di quello che – inascoltata in maggioranza – aveva detto all’epoca la presidente della commissione Giustizia al Senato, la leghista Giulia Bongiorno: «Aver abrogato l’abuso d’ufficio non significa che i cittadini restano privi di protezione. Stiamo esaminando nella commissione che presiedo al Senato nuove forme di tutela dei cittadini da eventuali comportamenti prevaricatori di pubblici ufficiali».

Approvata questa prima riforma – più forte mediaticamente – il governo è passato al secondo step, paradossalmente anche più rilevante perché a salvaguardia dei portafogli degli amministratori pubblici.

Il danno erariale

Passata più in sordina, la riforma in corso della Corte dei conti è però un vero colpo di spugna rispetto alle responsabilità di chi amministra denaro pubblico. Il disegno di legge, presentato a prima firma dell’oggi ministro e all’epoca capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti, stravolge le competenze dell’organo di rilevanza costituzionale a tutela delle casse dello Stato.

Secondo fonti di governo, dietro il complesso progetto riformatore ci sarebbero due menti giuridiche molto acute come quella dello stesso Mantovano e dell’attuale giudice costituzionale Francesco Saverio Marini (all’epoca consigliere giuridico di palazzo Chigi).

Già questo basterebbe a far capire quanto il testo sia stato considerato di fatto blindato sin dall’inizio, nonostante i molti tentativi di interlocuzione che l’Associazione magistrati Corte dei conti ha tentato sin dalla presentazione del progetto.

La riforma – approvata alla Camera e ora in discussione al Senato – di fatto ridisegna le competenze della Corte dei conti, tramutandola in un organismo quasi di consulenza della pubblica amministrazione e riducendone invece i poteri di controllo.

A saltare agli occhi, infatti, è la compressione del danno erariale, che è il danno patrimoniale subito dallo Stato a causa del comportamento di dipendenti pubblici o di chi agisce in nome della Pubblica Amministrazione. In altre parole, lo sperpero di denaro pubblico da parte di chi lo gestisce.

La riforma agisce su due fronti: da un lato limita definitivamente il danno erariale ai soli casi di dolo e alcuni specifici casi di colpa grave attiva (come il travisamento di una norma giuridica).

Viene inoltre introdotto un meccanismo di controllo preventivo della Corte: l’amministratore che chieda il controllo su un atto e lo superi, poi non potrà venire chiamato a rispondere per danno erariale né per quell’atto né per gli effetti che esso produrrà nella sua attuazione. In altre parole, una sorta di esimente automatica.

È previsto anche un meccanismo di silenzio-assenso: se la Corte non delibera sull’atto entro trenta giorni, si considera automaticamente registrato e l’amministratore non avrà più alcuna responsabilità. Infine, si incide anche sulla prescrizione: il danno erariale si estingue in cinque anni, che scattano dal momento in cui viene commesso e non dal momento in cui viene scoperto.

Come se tutto questo non bastasse, la riforma riduce anche sull’ammontare del risarcimento nel caso in cui un amministratore incorra comunque nei limitati casi di danno erariale. Chi viene condannato, infatti, dovrà risarcire «un importo non superiore al 30 per cento del pregiudizio accertato» e «comunque, non superiore al doppio della retribuzione lorda del corrispettivo o dell’indennità percepiti per il servizio reso».

Tradotto: se viene accertato un danno all’erario di un milione di euro, all’amministratore pubblico che lo ha prodotto non si potrà chiedere più di 300mila euro e, se si tratta di un danno prodotto da un amministratore pubblico che guadagna 50mila euro lordi, il risarcimento sarà al massimo di 100mila euro. Uno sconto significativo, di cui beneficiano solo i colletti bianchi nel caso di mala gestione di denaro pubblico.

Con un ulteriore paradosso: l’eventuale danno potrà essere pagato da una assicurazione, visto che viene introdotta la norma per cui chi ha incarichi che comportano la gestione di risorse pubbliche da cui discenda la sua sottoposizione alla giurisdizione della Corte dei conti ha l’obbligo di copertura assicurativa.

Di fatto, dunque, si rende quasi conveniente violare la legge anche dal punto di vista economico, producendo anche eventuali problemi di compatibilità con il diritto dell'Unione europea rispetto alle risorse del Pnrr. Con un effetto chiaro: «L'introduzione di tetti irrisori innescherà processi di deresponsabilizzazione di chi gestisce risorse pubbliche», ha detto la presidente dell’Amcc, Paola Briguori, che con l’associazione l’11 aprile ha riunito a Roma duecento tra magistrati contabili, ordinari e professori per discutere delle conseguenze della riforma e lanciare un ulteriore grido d’allarme al governo.

Lo scudo per i politici

L’emendamento approvato forse più surreale, però, riguarda un ulteriore scudo che salva solo i politici.

«La buona fede dei titolari degli organi politici si presume, fino a prova contraria, fatti salvi i casi di dolo, quando gli atti adottati dai medesimi titolari nell’esercizio delle proprie competenze, sono proposti, vistati o sottoscritti dai responsabili degli uffici».

Tradotto: la presunzione di buona fede in caso di colpa grave che fa salvi tutti i sindaci, i membri del governo, i presidenti di regione e così via. Basta che con l’atto, oltre alla loro firma, ci sia – come quasi sempre accade – anche un parere tecnico o amministrativo.

Una sintesi del progetto di governo è stata data dal procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, proprio al dibattito della Corte dei conti: «Impedire l’accertamento di chi ha commesso un illecito o il recupero del danno effettivo arrecato all’erario significa meno risorse per opere pubbliche, ospedali, scuole» e così «si diffonde un messaggio di impunità».

Quanto alla paura della firma, sarà certamente cancellata dall’effetto del combinato disposto dell’impunità penale e del ridottissimo rischio contabile. L’interrogativo posto sia dalle toghe ordinarie che da quelle contabili e a cui non risponde il governo, però, è quanto costerà alle casse dello Stato sollevare da qualsiasi responsabilità gli amministratori pubblici.

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