Si sta ormai entrando nel vivo della formazione del nuovo governo. Dopo l’insediamento delle Camere, l’elezione dei rispettivi presidenti, la costituzione dei gruppi parlamentari con la nomina dei capigruppo e la definizione degli uffici di presidenza, il presidente della Repubblica – Sergio Mattarella - inizierà la fase delle consultazioni.

Da settimane tra gli alleati della coalizione vincitrice alle elezioni sono in corso trattative per la composizione del nuovo governo, che negli ultimi giorni, com’è noto, hanno portato a dissidi fra Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi. Ciò non dovrebbe precludere il conferimento dell’incarico alla leader di Fratelli d’Italia, partito che ha preso più voti nella coalizione, sempre che le tensioni non si acuiscano in maniera tale da compromettere la tenuta di una effettiva maggioranza.

In un articolo precedente abbiamo parlato delle consultazioni del Capo dello stato. C’è un elemento ulteriore da considerare nelle tappe di avvicinamento verso il nuovo esecutivo: la scelta dei ministri. Secondo l’art. 92 della Costituzione, «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri».

La disposizione è chiara: il presidente del Consiglio propone, quindi non impone, i ministri al presidente della Repubblica, il quale pertanto non si limita a un’automatica accettazione delle scelte del primo. Può essere utile verificare come il potere di nomina si estrinsechi in concreto e come il Quirinale possa influire sulla composizione del nuovo governo.

Il potere di nomina

Il presidente della Repubblica nomina presidente del Consiglio e ministri che, in base agli elementi raccolti nel corso delle consultazioni, reputa possano ottenere la fiducia delle due Camere (art. 94 Cost.). Ma i ministri, a propria volta, devono avere la fiducia del presidente del Consiglio, al quale – per tale motivo - compete in via esclusiva la loro scelta.

È quest’ultimo, infatti, ad avere il compito di mantenere «l’unità di indirizzo politico ed amministrativo» del governo, «promuovendo e coordinando la attività dei ministri» (art. 95 Cost.). In questa cornice costituzionale va inquadrato il margine di azione del Colle. Il Capo dello stato non può decidere i nominativi da porre a capo dei dicasteri, né potrebbe chiedere di concordarli preventivamente, perché ciò non solo sarebbe incompatibile con il suo ruolo super partes di garante della Costituzione, ma rappresenterebbe un’ingerenza nella funzione di indirizzo politico che, invece, spetta al vertice dell’esecutivo. Per la stessa ragione, egli non potrebbe nemmeno rifiutare la proposta di un ministro per ragioni di dissenso politico, trattandosi di una sfera che gli è preclusa.

Tuttavia, il presidente della Repubblica non è nemmeno un notaio chiamato solo a ratificare le scelte del presidente del Consiglio, come visto diverse volte in passato.

I casi

Nel 1979, Sandro Pertini, presidente della Repubblica, si oppose alla nomina di Clelio Darida al ministero della Difesa, proposta dal presidente del Consiglio incaricato, Francesco Cossiga, che lo sostituì con Attilio Ruffini.

Nel 1994, Silvio Berlusconi indicò Cesare Previti, suo avvocato, come ministro della Giustizia, ma il nominativo fu rifiutato da Oscar Luigi Scalfaro per motivi di opportunità; e così Previti fu assegnato al ministero della Difesa, mentre alla Giustizia fu indicato Alfredo Biondi.

Nel 2001, Berlusconi – durante la formazione del suo secondo governo – individuò come ministro della Giustizia Roberto Maroni. Ma siccome in capo a quest’ultimo pendevano due processi, l’incarico fu reputato inopportuno dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, e così il ministero andò a Roberto Castelli, mentre a Maroni fu affidato il dicastero del Lavoro.

Nel 2014, il presidente Giorgio Napolitano reputò che il procuratore di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, indicato da Matteo Renzi, non potesse divenire ministro della Giustizia, perché la sua nomina avrebbe contraddetto la regola non scritta secondo cui un magistrato in servizio non può assumere la carica di Guardasigilli, e così alla Giustizia fu assegnato Andrea Orlando.

Nel 2018, Paolo Savona non fu nominato ministro dell’Economia per l’intervento del presidente Sergio Mattarella – che lo motivò con la necessità di tutelare l’appartenenza dell’Italia all’Europa, il rispetto degli impegni internazionali sottoscritti, la garanzia del risparmio - ma poi fu posto al vertice del dicastero degli Affari europei. Mattarella spiegò come il proprio potere di nomina fosse tutt’altro che simbolico: «il presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia, che non ha mai subito, né può subire, imposizioni».

Dunque, se il capo dello Stato non può ingerirsi nel merito politico delle scelte del presidente del Consiglio in ordine ai componenti del futuro governo, può tuttavia intervenire in via di moral suasion, e non solo, qualora constati l’eventuale sussistenza di motivi di inopportunità delle scelte stesse, anche al fine della tutela di valori e principi costituzionali.

I ministri tecnici

Dell’esecutivo possono fare parte ministri non solo “politici”, cioè scelti tra i parlamentari, ma anche “tecnici” di provenienza esterna, individuati in funzione delle loro competenze specifiche. Nel nostro sistema democratico, il Governo non è legittimato in quanto i suoi ministri provengano dal parlamento, quindi direttamente dal voto popolare, ma è legittimato dalla fiducia che riceve dal parlamento stesso.

Il ricorso sempre maggiore a figure tecniche, considerate una sorta di valvola di salvaguardia in momenti difficili per il paese, specie in ministeri essenziali qual è quello dell’Economia, risponde alla necessità di assicurare la presenza di persone esperte, come garanzia della soluzione dei problemi più rilevanti. Se ciò è corretto in termini teorici, sul piano concreto vanno svolte alcune considerazioni.

In primo luogo, un ministro, politico o tecnico che sia, è comunque chiamato a compiere scelte politiche, il che significa valutare gli interessi in gioco, decidendo come possano essere mediati, quale sia quello prevalente, da tutelare, e quale invece possa essere sacrificato.

Dunque, un ministro non può mai essere solo un tecnico, cioè agire esclusivamente in base a regole scientifiche. E non è detto che un non-politico, per quanto esperto nella propria materia, sia in grado di compiere la mediazione politica che, dato il ruolo, gli è richiesta.

In secondo luogo, la scelta di tecnici al governo nei momenti cruciali consente ai politici una sorta di deresponsabilizzazione per eventuali scelte scomode e impopolari, che comportino sacrifici per i cittadini, e rischia di far prevalere una cultura dell’antipolitica, che delegittima la politica stessa.

Se si radica l’idea che serve comunque sempre il ricorso a figure tecniche per risolvere i problemi più complessi, da un lato, i politici si muniscono di un comodo paravento; dall’altro lato, la gente si convince che sia inutile andare a votare. Ed è ciò a cui stiamo già assistendo.

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