Confusi ma alleati. Il campo largo resiste e prova a “ripensarsi”

Non va tutto bene ma deve andare tutto avanti. Il giorno dopo la sconfitta bruciante delle Marche – bruciante per l’ottimismo che l’alleanza si è autoinflitta, rimanendone vittima – dal Pd i pochi che commentano battono tutti sullo stesso tasto: la corsa di Matteo Ricci era in salita, si sapeva, l’alleanza va avanti. Igor Taruffi, capo dell’organizzazione, in tv ripete: «Manca un anno e mezzo alle politiche, la strada non è in discussione. Se vogliamo essere alternativi alla destra e costruire un governo di alternativa, l’unità delle forze di centrosinistra non è in discussione. Lo testimoniano anche le vittorie dell’anno scorso in Sardegna, Emilia-Romagna, Umbria e i capoluoghi di regione». E Francesco Boccia, presidente dei senatori: «Il nostro progetto politico va avanti. La vera sfida è far crescere il consenso attorno a un programma chiaro, credibile e alternativo al centrodestra». La strada c’è, insomma: giovedì in parlamento Pd, M5s e Avs avevano intenzione di presentarsi uniti sulla mozione sulla pace di Trump Medio oriente. Ma il Pd è in fibrillazione: la minoranza spinge per votare con la maggioranza un apertura di credito al piano Usa. Come sempre, i nodi interni irrisolti investono il lavoro con gli alleati. Insomma, non è un caso che gli elettori non vedano l’alternativa «chiara e credibile»: non c’è. L’alleanza non si tocca L’alleanza non è in discussione, è certo. Anche quando, a botta marchigiana calda, Giuseppe Conte invita tutti a «riflettere» sul fatto che la proposta comune non ha scalfito l’affluenza, che anzi è crollata di dieci punti, non dice che il M5s possa avere un ripensamento. Non può: il prossimo weekend si vota in Calabria con un suo candidato presidente, Pasquale Tridico, la cui corsa è in salita come e più di quella di Ricci. Dopo, il popolo dem dovrà votare il “suo” Roberto Fico in Campania. Conte piuttosto intende che ormai è certificato che «l’alleanza non basta» – sono le frasi che circolano nel Movimento e ne raccontano il “sentiment” – che «servono programmi competitivi», soprattutto che «stare insieme non è di per sé un valore in assenza di una visione, degli obiettivi, dei progetti». Del resto il mantra del «testardamente unitaria» di Schlein lo ha sempre irritato. Dal lato dem, il ragionamento che circola nella maggioranza è che il voto delle Marche aveva un suo specifico; anche lo stentato risultato del Pd (22,5 per cento) è frutto di una lista del presidente che si è portata via molti consensi (ha preso il 7,3). Tutto il gruppo dirigente ha fatto il possibile («abbiamo dato il 200 per cento», dice Ricci), nessuno può recriminare: il candidato era della famiglia riformista, la segretaria è stata sette volte nella regione, i piccoli centri sono stati battuti palmo a palmo. Quindi, dove si è sbagliato? Ora nessuno vuole aprire «la riflessione». Almeno non prima della fine della tornata delle regionali, a fine novembre. Il prossimo 24 ottobre il pezzetto di area riformista che si stacca da Bonaccini per creare una componente meno indulgente con la segretaria si è data appuntamento a Milano. Ma sarà, viene spiegato «un’iniziativa sui contenuti riformisti a partire dal tema della crescita». La richiesta di una «riflessione» arriverà, ma non subito, dopo. Subito però c’è lo studio dell’Istituto Cattaneo diretto dal politologo Salvatore Vassallo, il cui report ieri sul voto marchigiano dice: «Considerando la stima dei flussi su Ancona e Pesaro, possiamo ragionevolmente ipotizzare che circa 3 punti percentuali dei 52,4 ottenuti da Francesco Acquaroli (il candidato della destra, ndr) provengano dall’elettorato dell’area “liberal-democratica” del centrosinistra (Az, Iv, +Europa). Dall’altra parte, Matteo Ricci, che ha ottenuto il 44,4 per cento dei voti, oltre a essere stato penalizzato da questo primo fenomeno, ha anche sofferto per la significativa flessione nel tasso di partecipazione al voto degli elettori M5s e Avs. L’entità di questo secondo fenomeno non è stimabile sulla base dei nostri dati. Si può comunque dire con certezza che non meno di 2 punti percentuali siano venuti a mancare a Ricci per effetto di questo secondo fattore». Tradotto: l’alleanza, per come si è presentata nelle Marche – ma lo schema è lo stesso di quello nazionale – perde al centro e a sinistra non riesce a recuperare l’astensione. Messaggio chiaro anche per le politiche. Ma solo per chi ha orecchie per intendere. Congresso inevitabile Più avanti ci sarà da affrontare il tema della leadership. Per ora c’è da ripensare lo schema con cui il partito affronta le missioni impossibili: come le Marche, e le politiche del 2027. Alla fine dell’autunno si trarranno i bilanci sui risultati delle regionali, che saranno meno smaglianti dello sperato. Per questo ora Schlein e i suoi hanno smesso di vagheggiare un congresso anticipato: serviva a rafforzarla nel Pd, cosa che si è assicurata con un più prudente accordo interno con Bonaccini e la minoranza. Anche il sostegno dell’Areadem di Dario Franceschini resta: per responsabilità, e mancanza di alternative. Eppure i riformisti che escono dalla tenda, anzi, dal gazebo di Bonaccini presto o tardi un congresso lo chiederanno lo stesso: anche per perderlo. Perché pesandosi guadagnerebbero comunque una quota di rappresentanza nelle future liste politiche. E se la richiesta di congresso arriverà, sarà difficile per Schlein dire no, a rischio di apparire autoconservativa, quindi meno forte. «Se nel Pd qualcuno chiederà di fare un punto politico lo faremo», ha detto Boccia. È presto, c’è la campagna elettorale, ma sente l’aria. Quella piccola nuova corrente che il Nazareno tratta con sufficienza ha bisogno di correggere la narrativa di un Pd radicalizzato, e di acquisire attrattiva a fronte della “cosa” di centro che Matteo Renzi vuole varare per interposta Silvia Salis. © Riproduzione riservata