«Palude» è una delle tre parole che rimbalzano da un discorso all’altro nelle conversazioni e nelle chat dei dirigenti del Partito democratico. Le altre due parole, nei ragionamenti su a che punto è la notte della maggioranza, sono «stallo» e «logoramento». Al momento il voto del prossimo mercoledì 9 dicembre è un problema per i giallorossi. I numeri sulla risoluzione che dovrà dare un «mandato pieno» al premier Giuseppe Conte in vista del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre che darà l’ok alla riforma del Fondo salva stati, ancora non ci sono. Anche se la convinzione di tutti – maggioranza e opposizione – è che alla fine ci saranno.

I segnali dal Colle

Ieri le cronache dei quotidiani hanno anticipato la convinzione degli «ambienti vicini al Colle»: un governo cade perché sconfitto a un voto di fiducia o per le dimissioni del premier. Ma in ogni caso, dopo un eventuale incidente d’aula, non resterebbe che andare a votare. Nonostante la legge elettorale sghemba attualmente in vigore. Il Rosatellum riadattato al taglio dei parlamentari approvato con il referendum, senza i correttivi e applicato su nuovi collegi, spianerebbe i piccoli partiti e si risolverebbe in un ipermaggioritario di fatto. Il messaggio può colpire soprattutto i senatori dissidenti dei Cinque stelle. Ma non solo.

Senza l’aiutino azzurro

Per la maggioranza sarà difficile far conto su un aiutino azzurro: Antonio Tajani e Renato Brunetta in queste ore lavorano a un testo di risoluzione autonoma che consenta a Forza Italia di esprimere un No alla riforma del Mes diverso da quello degli alleati euroscettici. Ma i tre totiani di Palazzo Madama (Massimo Berruti, Gaetano Quagliariello e Paolo Romani) si preparano a votare Sì, e altrettanto potrebbe fare la componente Udc di Forza Italia. Se la maggioranza dovesse acciuffare il successo solo grazie a questi aiutini, la questione politica della propria insufficienza si porrebbe comunque.

Sul lato giallorosso, il tavolo che deve preparare il testo della risoluzione non ha ancora trovato una definizione finale, ma per distinguere il Mes sanitario dalla riforma del Mes ci si avvia a riciclare una formula già collaudata e votata in altre due occasioni: la maggioranza impegna il governo «ad assumere ogni decisione sul ricorso alla linea di credito sanitaria del Mes solo a seguito di un preventivo e apposito dibattito parlamentare e previa presentazione da parte del governo di un’analisi dei fabbisogni e di un piano dettagliato dell’utilizzo degli eventuali finanziamenti».

Il problema non è questo, dunque, o per lo meno non solo. Una volta scavallato il voto del 9 dicembre ci sarà il voto finale del 27 gennaio. E la questione irrisolta fra alleati scalpitanti potrebbe restare intatta. Si chiama Europa: una maggioranza nata di fatto il 17 luglio 2019 a Bruxelles – quindi un mese prima della rottura dell’alleanza gialloverde a seguito dei fatti del Papeete – sul voto favorevole alla presidente della commissione Ursula von der Leyen, dopo più di un anno torna a incagliarsi sulla questione europea. «Il M5s farà una riflessione interna, ma un governo che non ha una maggioranza in politica estera fa riflettere», ha detto ieri, pensoso, il ministro per gli Affari europei Enzo Amendola a Radio 1. Dello stesso avviso il collega degli Affari regionali Francesco Boccia: «Il governo va avanti fino a che c’è una maggioranza con una visione comune». E il capogruppo alla Camera Graziano Delrio: «Noi siamo sempre disposti a mediazioni e a tenere unita la maggioranza e il governo ma non è possibile che non si vada avanti, per noi è un punto non eludibile».

Il gruppo M5s di Bruxelles, che ormai lavora di concerto con il Pd più di quanto non si sappia in Italia (tanto più dopo la fuoriuscita degli ultimi quattro euroscettici) è «decisamente contrario a mettere il veto sulla riforma», viene riferito. Ma a Roma grande è la confusione. Il reggente Vito Crimi ieri, su Twitter, ha esortato i suoi ad appoggiare ancora Conte: «Abbiamo tante cose da fare. Alcune già avviate e in stato avanzato, altre da iniziare. E davanti a obiettivi tanto importanti abbiamo il dovere di non mollare». Anche il ministro Luigi Di Maio si è convertito al Sì alla riforma. Ma Beppe Grillo in rete ha scoccato un post in cui dà per acquisite «le mille ragioni che fanno del Mes uno strumento non solo inadatto ma anche del tutto inutile per far fronte alle esigenze del nostro paese in un momento così delicato». Fra l’altro, una croce definitiva sul Mes sanitario.

Che è invece ancora la richiesta che il Pd fa a Conte, ormai come un feticcio. Ed è l’ultima, in ordine di tempo, su cui incassa un no. Prima ci sono state le riforme, ormai arenate. Soprattutto la legge elettorale. Il Pd chiede il proporzionale, Italia viva ha virato sul maggioritario. Il Pd chiede a Conte di comporre i conflitti. Ma sul tema, giovedì sera durante la conferenza stampa di presentazione del nuovo Dpcm, il premier ha fatto il furbo: «Recentemente c’è stato un confronto con i leader delle forze di maggioranza e tutti hanno condiviso il percorso di costituire due tavoli per dare un’ampia prospettiva per alcuni passaggi riformatori. E per affrontare meglio alcuni temi prioritari in materia di politica economica e sociale. C’è stato un lavoro e all’esito di questo lavoro, i risultati saranno portati a me e avrò un ulteriore confronto con i leader». Ma è un cane che si morde la coda: i tavoli sono bloccati e se il premier non mette ordine alla sua maggioranza, quell’«esito» non arriverà.

I proporzionalisti

Anche così va letto il rapido dietrofront di Forza italia e il ritiro della disponibilità al “dialogo”. Il sostanziale stop al proporzionale ha consigliato l’ex Cavaliere a riallinearsi con l’alleato Salvini. Ed è l’ennesima umiliazione per Nicola Zingaretti. Che si è visto dire no a praticamente a tutte le richieste: riforme, programma di fine legislatura, rimpasto, condivisione della gestione del Recovery Fund. E da ultimo, ma non ultimo, il Mes sanitario ormai seppellito da Grillo e da palazzo Chigi. È per questo che dall’entourage del segretario del Pd arrivano solo segnali perplessi. «Noi restiamo concentrati nella lotta alla pandemia. Ma c’è grande preoccupazione per il logoramento del quadro politico». Per la palude, insomma.

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