Giuseppe Conte si è imbarcato in un’impresa che non pagherà. La rottura con il governo di cui ha fatto parte per diciotto mesi, non motivata neanche da una questione precisa, non basterà a invertire il trend negativo dei consensi del Movimento 5 stelle.

La linea è contraddittoria e incomprensibile anche ai suoi sostenitori. La dimostrazione sta nel fatto che, per chiarire la sua intenzione di andare fino in fondo, abbia chiesto ai suoi ministri di dimettersi dal governo Draghi. Ma la linea dura non è condivisa: la delegazione ministeriale non è d’accordo, il ministro per i Rapporti con il parlamento Federico D’Incà e quello dell’Agricoltura Stefano Patuanelli si espongono per dire che non ci stanno.

L’elettorato si è già perso tra i dettagli tecnici della strategia parlamentare, dietro cui si rifugia l’avvocato di Volturara Appula. Giovedì Conte non ha fatto votare la fiducia al decreto Aiuti in aula al Senato, ma la sera prima, durante un’assemblea con tutti i parlamentari, ha annunciato che in un successivo voto avrebbe confermato la fiducia a Draghi. «Ci sottraiamo alla logica della fiducia», ha detto la capogruppo M5s al Senato Mariolina Castellone durante il suo intervento prima del voto di giovedì, spiegando che, come alla Camera, la decisione di non partecipare al voto riguardava il merito del decreto Aiuti, non il sostegno al governo. Il risultato è stato comunque quello di far dimettere Draghi, ma la motivazione contorta – sempre di fiducia al governo si tratta – indebolisce agli occhi dei sostenitori la figura del leader e del Movimento tutto.

Le riunioni

Conte risente anche della zavorra dalle eterne riunioni del Consiglio nazionale. Una delle immagini più trasmesse nei racconti televisivi della crisi è quella del portone di via di Campo Marzio, a due passi dalla Camera, dove i Cinque stelle hanno stabilito la loro sede fisica. Conte e gli altri vertici del partito entrano e escono a qualsiasi ora, restano riuniti per giornate intere.

I maggiorenti si sono riuniti a lungo il 6 luglio, prima del faccia a faccia tra l’avvocato e Draghi, arrivando a decidere per il voto contraddittorio sul decreto Aiuti in trattazione alla Camera: sì alla fiducia, astensione al voto finale, tenendo conto che il regolamento della Camera prevede due votazioni distinte e non una come al Senato. Il numero di ore che i vertici hanno passato riuniti è cresciuto vertiginosamente mercoledì, quando si doveva decidere la linea sul voto del decreto al Senato. Dalle otto ore di riunione complessiva (con interruzione pomeridiana) è uscita la decisione di non partecipare al voto.

Conte ha annunciato la scelta in un lungo discorso tenuto durante l’assemblea congiunta dei parlamentari che è seguita. La riunione degli eletti, però, da luogo di democrazia di cui si fregiavano gli attivisti, è ormai solo il luogo dove i fedelissimi del capo mettono deputati e senatori di fronte al fatto compiuto. Anche l’intervento del presidente, pur trasmesso in diretta Facebook, non ha aiutato a chiarire le motivazioni dello strappo. L’avvocato pugliese ha parlato dell’inceneritore di Roma, ma ha tirato in ballo anche altri temi, la crisi, il caro bollette, il reddito di cittadinanza, il superbonus, i fondali marini.

Una lunga serie di questioni che non hanno chiarito quale sia stata davvero la causa della rottura. Anzi, hanno reso la situazione più confusa. «Devo registrare una disponibilità del presidente a venirci incontro su tutti i punti, però è evidente la fase che stiamo attraversando non può accontentarsi di dichiarazioni di intenti», ha detto Conte ai suoi, dimostrando l’eterna insoddisfazione.

Il rapporto con Draghi

Che tra Conte e il suo successore non ci sia mai stata un’intesa fraterna non è un segreto. Draghi ha sempre avuto un rapporto nettamente migliore con Luigi Di Maio: uno dei motivi che ha peggiorato il clima è il fatto che il presidente del Consiglio non si sia espresso sulla scissione del M5s. Conte avrebbe voluto vederlo condannare il gesto del ministro degli Esteri, ma nell’ultimo mese ha raccolto anche i frutti della sua scelta di opporsi a tutti i costi all’elezione di Draghi al Quirinale a gennaio. «Diciamo sì a Draghi e alla visione di cui lo abbiamo investito», diceva all’epoca l’avvocato.

Nei giorni scorsi, mentre cercava di fermare la catena di eventi a cui aveva dato lui stesso vita, ha cercato più volte l’aiuto dal presidente, sperando in qualcosa da offrire ai suoi. Ma è rimasto deluso. Il rapporto con Draghi è uno delle ragioni che complicano la situazione. Sullo strappo unilaterale si allungherebbe infatti l’ombra di una ripicca personale, motivo per cui l’ex premier in ogni dichiarazione fa ricadere la responsabilità sulle «forzature degli altri».

Il bilancio finale è una linea totalmente paradossale, nel migliore dei casi. Conte vuole rompere con un presidente che soli sei mesi fa reputava «prezioso», ma senza prendersi la responsabilità di una scelta forte motivata da una ragione precisa, come fece per esempio Matteo Renzi nel 2021. La rottura, poi, rimane parziale, per lasciare aperta la strada del rientro, casomai dovesse servire. Capitalizzare nei sondaggi a partire da una posizione che non accontenta nessuno sarà molto difficile quando in autunno la crisi metterà in difficoltà l’elettorato, ben consapevole di chi ha fatto saltare un governo che avrebbe potuto tutelarlo.

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