Nel maggio dello scorso anno il quotidiano tedesco Zeit ha pubblicato gli interventi del filosofo Jürgen Habermas e del giurista Klaus Günther, che si sono incontrati per discutere sul rapporto tra la tutela della salute e la salvaguardia delle libertà individuali. Per Günther, è necessario operare un bilanciamento fra diritti fondamentali, seguendo sempre un principio di proporzionalità.

Nella consapevolezza che i diritti fondamentali possono entrare in concorrenza tra loro, Habermas ritiene che, alla fine, la prevalenza debba essere riservata alla tutela della vita, dal momento che, come ha scritto Ronald Dworkin, i diritti non si riferiscono a “beni” che si possano bilanciare in base al peso.

I diritti dell’uomo, per Habermas, possono assumere validità positiva come diritti fondamentali solo attraverso «il processo democratico di formazione della volontà». Quando questo processo si attua entro i confini di uno stato di diritto  si è sempre ben lontani dai metodi totalitari, che hanno calpestato tanto le libertà individuali quanto il diritto alla vita.

Si fa allora fatica ad accettare l’opinione di Giorgio Agamben quando scrive che le ragioni che stanno alla base dei provvedimenti relativi al green pass possono in qualche modo richiamare alla mente le motivazioni “scientifiche” che pretesero di porsi a fondamento delle leggi razziali.

Procedure democratiche 

Il 26 luglio l’Istituto italiano di studi filosofici di Napoli ha pubblicato un intervento, firmato da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, in cui il green pass è considerato alla stregua di una pratica discriminatoria, simile ai tracciamenti adottati in Cina al di là della pandemia, e ai passaporti interni in uso in Unione Sovietica. 

Agamben e Cacciari sostengono che ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso tali pratiche, «all’inizio magari contenute, poi dilaganti». Il green pass indicherebbe così l’avvento di una nuova forma di totalitarismo.

È arduo però sostenere che i delicati meccanismi procedurali di una liberaldemocrazia possano essere associati al decisionismo autoritario di un regime totalitario. Ne è prova il fatto che lo stesso documento, considerato discriminatorio da Agamben e Cacciari, è invece visto da Maurizio Ferraris come la manifestazione di un diritto, a cui è necessariamente connesso un dovere.

La democrazia si esprime proprio attraverso un sistema di procedure che, mediante “strumenti abilitanti”, consentono l’esercizio di una libertà rispettosa dell’altro.

Il green pass sarebbe espressione, secondo Cacciari, di una dittatura sanitaria che, obbedendo alla logica foucaultiana del sorvegliare e punire, legittima uno stato di emergenza perenne, «un insulto alla Costituzione».

Questa posizione è stata a ragione contestata da Nadia Urbinati, la quale, al contrario, ritiene che il green pass si fondi sul diritto che lo stato ha di intervenire quando le nostre scelte possono nuocere ad altri. Non discrimina, dunque, perché «il suo principio di riferimento è quello del danno che, secondo la Costituzione, ammette l’interferenza con le scelte individuali se queste sono comprovatamente dannose per gli altri».

I doveri 

Un classico del liberalismo, John Stuart Mill, ci ha insegnato che la libertà stessa deve legittimamente essere limitata, quando può arrecare danno ad altri. L’articolo 2 della nostra Costituzione pone, accanto alla difesa dei «diritti inviolabili dell’uomo», i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La tutela della salute, come recita l’articolo 34, è, allo stesso tempo, «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». 

È evidente che nelle motivazioni dei movimenti ostili al green pass (per non parlare di negazionisti e No-vax) è fortemente sottovalutato il nesso tra le manifestazioni della libertà individuale e le conseguenze che possono derivarne nell’ambito della convivenza sociale.

Dal Diciottesimo secolo a oggi i vaccini hanno consentito di sconfiggere il vaiolo, la tubercolosi, la poliomielite e le politiche sanitarie dei diversi paesi, attraverso gli obblighi vaccinali, piuttosto che limitare la libertà, hanno tutelato la salute di milioni di persone.

Non tenendo conto di un dato così importante, e aderendo al quadro delineato da Agamben, si è così arrivati al paradosso della previsione di Slavoj Žižek, secondo il quale il virus, specchio di patologie ben diffuse nel nostro mondo, produrrà sconvolgimenti politici radicali.

Un’ipotesi che sembra scaturire dalle considerazioni di Agamben secondo cui ci troviamo di fronte alla «invenzione di un’epidemia» e «alla tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo».  Queste spinte autoritarie, che vogliono mettere a tacere le voci critiche, non riusciranno però, secondo Žižek, a impedire che un altro virus si diffonda. 

Il virus, sostiene il filosofo sloveno, con argomentazioni che riecheggiano la vaghezza di certi slogan del ’68, potrebbe favorire la caduta del regime comunista in Cina, così come, per ammissione dello stesso Gorbaciov, Chernobyl ha scatenato la fine del comunismo sovietico. 

In altre parole, la pandemia potrebbe condurci, a suo avviso, verso un nuovo comunismo, fondato sulla solidarietà, sulla «fiducia nel popolo e nella scienza».  Žižek, riprendendo ancora Agamben, sostiene che il lockdown «implica la nostra riduzione a semplici vite umane», in quanto rinunciamo a quello che rende la nostra esistenza degna di essere vissuta, «in cambio della semplice sopravvivenza». 

È però costretto ad ammettere che ci si trova, a questo punto, accanto alle posizioni della nuova destra populista.

Nessuna rivoluzione

Avrebbe giovato a Žižek riflettere sulle capacità di resistenza del capitalismo nel corso del tempo e magari sfogliare qualche pagina del filosofo coreano-tedesco Byung-chul Han, secondo il quale il capitalismo non subirà particolari traumi a causa della pandemia e la crisi non condurrà a una nuova forma di comunismo. 

I modelli economici neoliberisti, infatti, hanno preso vigore, in molti casi, dopo crisi gravissime, come sta avvenendo in Grecia e come è già accaduto in Corea. Il virus, scrive Byung-chul Han, non distruggerà il capitalismo, perché nessun virus è in grado di fare la rivoluzione, in quanto ci isola, limita la partecipazione politica e spinge ciascuno a preoccuparsi solo della propria sopravvivenza.

Diversamente da quanto sostenuto da Agamben e Cacciari, lo storico Yuval Noah Harari coglie, nell’attuale emergenza sanitaria, aspetti ambivalenti, che potranno alimentare nuove forme di convivenza.

Ritiene infatti che i provvedimenti di isolamento possono anche generare atti di solidarietà, rappresentando un test di cittadinanza. Ciascuno può decidere, infatti, se dar credito alla scienza, alle teorie del complotto o alla propaganda politica. 

Il green pass costituisce in realtà una scelta pragmatica, finalizzata a estendere le vaccinazioni in vista di una disponibilità di dosi che consenta di immunizzare la quasi totalità della popolazione. 

Ha sicuramente ragione Gennaro Carillo, quando sottolinea che non bisogna “eticizzare” il vaccino o il green pass, rischiando di evocare i fantasmi dello stato etico. Per sottrarsi a queste insidie, il green pass deve allora essere considerato come «un foglio che ci fa campare meglio e ci tutela di più».  

Sostanze filosofiche postmoderne

Il vaccino, come il green pass, non sono in sé il Bene, contrapposto manicheisticamente al Male, ma strumenti, dimostratisi efficaci, in grado di ridurre il contagio.

Risulta singolare che le spinte libertarie provengano spesso da ambienti che, a destra come a sinistra, non sono poi stati così critici verso modelli politici illiberali, passati o presenti.

Nella tradizione del costituzionalismo la difesa dell’individuo non si è mai esaurita in un ambito monadico, ma si è coniugata con gli interessi più ampi della società. All’articolo 4 della Dichiarazione dei diritti universali del 1789 leggiamo che «la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri».

Un individualismo che si esaurisca in forme narcisistiche o solipsistiche si colloca al di fuori della polis. Con saggia ironia Gustavo Zagrebelsky ha delineato il clima di questi mesi evocando la figura del Don Ferrante manzoniano, che, intossicato dal suo Aristotele, cercava maldestramente di applicare i sillogismi per capire qualcosa della peste di Milano del 1630. Secondo Zagrebelsky, dinanzi alla sterile disputa sul green pass, i Don Ferrante dei nostri giorni si cimentano con «altre sostanze filosofiche postmoderne».​​​​​​​​​​​​​​

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