Internet e il web nascono dall’incontro fra la cibernetica e i discendenti del telegrafo, culminato nel 2006 con l’arrivo dello smartphone che incorpora il computer e ci segue passo passo. È a partire da quell’anno che i titani tecnologici degli Usa cancellano i confini e risucchiano il grosso di quanto in pubblicità spendono le aziende.

Tanto sviluppo è avvenuto, come si sa, nel vuoto delle norme, eludendo le tasse e spremendo all’ossessione il business del clickbait. Con gli stati lì a guardare nonostante il concreto potere di tagliare l’accesso a fili, cavi e centraline, la base di quel mondo che pare immateriale.

In queste condizioni i social Usa dominano il mercato globale e gli altri paesi subiscono per non perdere il servizio. Solo la Cina, ma ahinoi è uno stato autoritario, ha sviluppato politiche, norme e strutture per tagliare le unghie ai social altrui oltre a dotarsi di giganti propri con notevoli storie di successo.

L’Europa invece, intesa come Ue, ha perso il treno tecnologico e non per caso, ma perché è divisa in 27 piccolezze nazionali che frammentano il capitolo Difesa, il motore principale, altro che start up in un garage, dell’innovazione Usa nel settore.

Avanguardia normativa

Così gli europei, in mancanza d’altro, si sono rivolti ai social americani e a un paio di cinesi. Ma almeno l’Ue ha trovato la vocazione a farsi produttrice (e ispiratrice per chi non è parte dell’Unione) delle norme che regolano il sistema. Col Gdpr (General Data Protection Regulation) del 2017, e replicato in seguito e in sostanza da 160 Stati in giro per il mondo, ha istituito la regola che ogni utente abbia il diritto di autorizzare raccolta e uso dei suoi dati. Dando, certo, il via alla solfa degli “accetto” che sbarra l’esplorazione d’ogni sito, ma fissando un principio essenziale per un meno monopolistico futuro.

Dal 1 gennaio 2023 entreranno poi in vigore il Dsa (Digital Service Act) e il Dma (Digital Market Act). Il primo regola l’hate speech e cose simili oltre a sanzionare la pubblicità illegale; il secondo mette efficaci bastoni fra le ruote alle pratiche monopolistiche dei soggetti dominanti (con una legge di tal genere quattro decenni or sono, Canale 5 sarebbe restato TeleMilano e il vegliardo Berlusconi non farebbe il pifferaio su TikTok).

Ovviamente l’Ue riesce a legiferare brillantemente in questo campo perché riguarda aziende altrui e ha più libere le mani rispetto al Congresso americano. Il punto è che Google, Facebook e Twitter un po’ strepitano, ma poi ci stanno grazie alla brama d’accedere a un irrinunciabile mercato di mezzo miliardo di persone e di ricche manifatture e servizi in cerca di contatti pubblicitari col mercato. In caso diverso sarebbero piovute le interruzioni del servizio e le annesse sollevazioni popolari, come accadde da noi negli anni Ottanta con lo “sciopero dei Puffi” che i meno giovani ricordano.

A dirla tutta l’Economist di inizio settembre, con un articolo impettito e anti gallico (il francese Breton è il commissario competente nell’Ue) sottolinea che alla forza delle norme non segue finora la rilevanza degli effetti e dubita che ciò possa mai accadere a meno che, evento improbabile, gli stati non sborsino i soldi necessari per reclutare il personale indispensabile all’attuazione delle regole.

Per non dire del compenso all’Irlanda, che tuttora soffre ed è riottosa perché fatica a staccarsi dai quattrini e dai posti di lavoro generati dal reggere il sacco alle elusive domiciliazioni fiscali delle imprese extra Ue. Gli inglesi sanno, anche in questo caso, essere antipatici e boriosi, ma non hanno tutti i torti nel sottolineare che la bontà d’una legge si vede quando passa oltre la stampa sulla carta.

Sovranità e dimensione

In buona sostanza, l’attuazione del patrimonio regolativo dell’Ue dipende da come si orienteranno i corpi elettorali dei singoli paesi nelle elezioni locali (come da noi il 25 settembre) e in quelle europee del 2024.

Tutto sta a vedere se da questioni misurabili e che li riguardano da vicino, come il tetto al prezzo del petrolio, gli elettori stiano verificando che la sovranità è certo sacrosanta (quanto meno perché è da lì che discende la certezza del diritto e, in ultima analisi, la stessa democrazia) e va sempre perseguita, ma non rincorrendo le farfalle e le certezze da osteria.

Sicché a stati e staterelli conviene la sovranità a geometria variabile, in funzione della dimensione di potenza della controparte da affrontare.

Figuriamoci a fronte dei titani social, rispetto ai quali i singoli membri dell’Ue se presi da sé soli paiono i gattini foto-scambiati fra i gattari. Cui Facebook peraltro deve la fortuna.

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