Per impulso del governo Conte l'Italia entra definitivamente nel mercato dei Golden Visa, i visti a pagamento che consentono a una clientela di ricchissimi investitori extracomunitari di comprarsi un pezzo di cittadinanza Ue. Una mossa tentata per anni anche dai governi precedenti, ma che adesso trova compimento e incontra il consenso degli specialisti della cittadinanza a pagamento.

La benedizione è giunta da Investment Migration Insider (Imi), il sito specializzato in analisi sul fenomeno della cittadinanza o residenza per investimento: finalmente l’Italia è diventata appetibile ai super-ricchi extraeuropei che per motivi diversi, in qualche caso per niente trasparenti, vogliono assicurarsi una appartenenza comunitaria.

Si tratta di una  pratica avviata a metà degli anni Ottanta per iniziativa di piccoli stati del Pacifico (il primo esempio risale al 1984, per iniziativa del governo di Saint Kitts and Nevis), ma che negli ultimi dieci anni si è diffusa nei paesi dell'Unione Europea.

Alcuni paesi, come Malta e Cipro, mettono addirittura in vendita i passaporti sulla base di un tariffario. Altri garantiscono programmi per la residenza, che da temporanea diventa permanente e consente l'accesso alla naturalizzazione col compimento dell'iter temporale previsto dalla legislazione nazionale. Ma in attesa che il percorso si completi, l'investitore gode di uno status privilegiato rispetto agli immigrati non paganti: zero test di lingua, zero barriere burocratiche, e soprattutto libertà di circolazione nel territorio Ue. Tutto quanto in cambio di una ricca tassa d'ingresso.

La formula della concessione del visto è stata battezzata Golden Visa e segna la nuova frontiera del turbo-capitalismo: tutto può essere comprato, diritti di cittadinanza compresi. L'affermazione di questo principio ha forgiato una nuova classe di migranti economici, che però dai governi comunitari vengono contesi anziché scacciati. In fondo, vengono a aiutarci a casa nostra.

Grazie a un articolo inserito nel decreto Sostenibilità (convertito in legge a settembre) l'Italia ha un programma che dagli analisti di Crbi (Citizenship and Residence by Investment, cittadinanza e residenza tramite gli investimenti) viene giudicato appetibile. Lo hanno battezzato “La Dolce Visa” e giunge al termine di un lavorio lungo e complesso, che ha investito tre diversi governi dal 2016.

A margine del referendum

Il sito web del Ministero dello Sviluppo Economico (Mise), in fondo alla pagina “Competitività, industria e nuove imprese”, inserisce un link intitolato “Visto per investitori”. Con un click si accede alla pagina “Investor Visa for Italy: un visto per attrarre investimenti strategici dall'estero”.

È una pagina di accoglienza che contiene dati non aggiornati sul tariffario degli investimenti e la breve cronistoria di un iter legislativo dalla caratteristica costante: scorrere sotto silenzio.

Il primo passaggio dell’iter, quello che inserisce nella disciplina italiana su cittadinanza e immigrazione il principio di Rbi, è incorporato nella Legge di Bilancio  del 2017. 

La norma fissa un tariffario strutturato su quattro opzioni: 1) investimento da 2 milioni di euro in titoli di stato; 2) investimento da 1 milione di euro in una società; 3) investimento da 500 mila euro in una start up; 4) versamento di 1 milione di euro per una “donazione a carattere filantropico” (su progetti legati a cultura, istruzione, ricerca, immigrazione, beni culturali).

All'investitore non comunitario che si veda accettare la candidatura viene concesso il “visto investitori” della durata di 2 anni, rinnovabile alla scadenza per ulteriori 3 anni. E al cumulo dei 5 anni, per disciplina preesistente, è possibile chiedere il permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, con prospettiva di naturalizzazione allo scadere del decimo anno di residenza ininterrotta.

Da Gentiloni a Conte

Le disposizioni contenute nella legge di Bilancio 2017 trovano applicazione nel decreto interministeriale del 21 luglio 2017. È in sella il governo guidato da Paolo Gentiloni.

Da quel momento il principio della residenza per investimento trova applicazione in Italia, ma i risultati sono scadenti. Un documento pubblicato dal sito del ministero dello Sviluppo a dicembre 2017 parla di 310 candidature di cui 123 respinte.

Nei due anni successivi le richieste d'adesione al programma sulle start up sono rispettivamente 74 e 34. La quota maggiore di domande viene dalla Cina, seguita dalla Russia.

Secondo gli analisti la competitività del programma italiano è zero. I due difetti principali: manca l'opzione dell'investimento immobiliare (ciò che altrove scatena lobby agguerrite), e prevede un obbligo di permanenza sul territorio nazionale che è difficile da rispettare.

Il secondo governo Conte prova a riattivare il programma con due interventi successivi. Il primo si ha col Decreto Rilancio (maggio 2020): sconto agli investitori esteri sull’investimento richiesto in start up (da 500 mila a 250 mila euro) e  in società (da 1 milione a 500 mila euro). Ma non basta.

Il presidente del Consiglio allora rilancia: l'articolo 40 quater del Decreto Semplificazioni stabilisce che l'investimento possa essere effettuato anche tramite persona giuridica, e che l'investitore è esonerato da quanto disposto nell'articolo 4bis dello stesso decreto (dedicato alla regolazione dei contratti pubblici) e soprattutto «(…) dagli obblighi inerenti alla continuità del soggiorno in Italia previsti dal regolamento di attuazione».

Dunque, porte spalancate agli investitori esteri a caccia di cittadinanza Ue. Sperando non si scivoli ai livelli di Malta e soprattutto di Cipro, dove gli scandali sugli opachi soggetti che hanno comprato il passaporto comunitario hanno forzato a rivedere i programmi.

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