A fronte di “dure difficoltà”, sconfitte elettorali comprese (quella, brutta, dei cinque referendum lo è), chi ha vocazione per la politica, risponde con le parole di Max Weber: «Non importa, continuiamo!» 

Però, affinché lo “squoraggiamento” non diventi fenomeno diffuso e paralizzante s’impone l’obbligo di un’analisi realistica della situazione in grado di indicare prospettive percorribili. Sbagliato è sostenere che nei referendum sul lavoro (e sulla cittadinanza) si è manifestata una qualsivoglia crisi della democrazia.

Al contrario, milioni di italiani hanno fatto uso di uno strumento proprio della democrazia, il referendum abrogativo, che contempla il non voto come modalità per incidere sull’esito. Il problema, semmai, consiste nel prendere atto che nella struttura sociale del paese, già da qualche tempo, i lavoratori dipendenti sono una, per quanto non trascurabile, minoranza.

Né i quesiti né i loro sostenitori né la campagna elettorale sono stati in grado di convincere i moltissimi lavoratori autonomi a sostenere una pur nobile battaglia in grado di dare vita a una coalizione sociale e politica potenzialmente maggioritaria.

Rispetto per gli elettori

Certo, nei referendum le poste in gioco possono essere molte, al di là degli specifici quesiti. Cercare di coinvolgere il governo di destra quasi fosse possibile sfiduciarlo dandogli una spallata è stato fin da subito un errore, comunque, non la modalità giusta per portare elettori aggiuntivi alle urne. Al contrario, potrebbe avere convinto i sostenitori di quel governo a starsene comodamente e efficacemente a casa.

Gli elettori meritano sempre rispetto. Hanno mostrato interesse per il referendum. Si sono informati e hanno scelto con la loro cognizione di causa, come dimostrano i “No” al quesito inteso a rendere più facile il conseguimento della cittadinanza italiana.

La loro affluenza alle urne ha implicato qualche costo in termini di tempo e di energie, forse anche di spese. Meglio, sempre, a mio parere, gli elettori che partecipano degli astensionisti. Il rispetto per i votanti non significa affatto che debbano, in questa circostanza, contare di più dei non votanti consapevoli. Di più, il rispetto anche degli elettori che hanno preferito non votare non implica affatto che commentatori, politici, gli altri cittadini debbano astenersi dal criticarli sul modo e sulla sostanza. Insistere sull’obiettivo di una democrazia partecipata è raccomandabile e positivo.

L’importanza della leadership

Magari i politici del “Sì” e i sindacalisti potrebbero utilmente interrogarsi sui loro errori di comunicazione e sulle loro inadeguatezze di mobilitazione. Per fare tornare i conti, anzi, per migliorarli, non sarà sufficiente concordare con Weber e continuare le battaglie senza cambiare molto.

Costruire una coalizione politica potenzialmente maggioritaria richiede l’individuazione dei settori sociali ai quali mandare una pluralità di messaggi che spieghino in cosa quella coalizione non soltanto differisce, ma è preferibile al governo in carica. Esige visibile coesione di intenti e non prese di distanza furbesche e frequenti.

Per lo più gli elettorati democratici preferiscono la stabilità a qualsiasi prospettiva di ricambio che si presenti all’insegna dell’incertezza e del conflitto.

Max Weber ricorderebbe a tutti quanto importante, mediaticamente e politica, è la leadership. Senza controproducenti ipocrisie è tempo di riconoscere che Giorgia Meloni ha saputo esaltare il suo profilo di leader, di partito e di governo, anche nella sceneggiata minore della visita al suo seggio elettorale.

I contenuti, ovvero, le priorità programmatiche, continueranno a contare, ma senza una leadership alternativa, credibile, emersa/scelta tempestivamente, per tempo, le opposizioni italiane non andranno da nessuna parte. Non riusciranno a ottenere il voto di quel 10 per cento circa che fa sempre la differenza in tutte le elezioni democratiche. Non perché gli elettori non le hanno capite, ma proprio perché, come e più che nel referendum, ne vedono le contraddizioni e le carenze.

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