Camera e Senato hanno indicato quattro membri del consiglio di amministrazione Rai che s’aggiungono ai due indicati dal presidente del Consiglio d’intesa con il ministro dell’Economia e a quello eletto dai dipendenti dell’azienda. Rispetto alla volta precedente il meccanismo della lottizzazione s’è inceppato perché il governo ha indicato i suoi due nomi senza, a differenza del Conte I, darsi la pena di fungere da stanza di compensazione delle sofferenze spartitorie dei partiti. Gli esiti sono molteplici e qui proviamo a elencarne solo alcuni.

Forza Italia e Lega, le destre di governo, avendo solo due posti da spartirsi (l’hanno spuntata Simona Agnes in quota Forza Italia e l’uscente Igor De Biasio in quota Lega), hanno lasciato fuori Fratelli d’Italia, destra anch’essa, ma di opposizione. Quindi è possibile che gli esclusi chiedano che Alberto Barachini (FI), l’uomo di Mediaset che presidia la commissione parlamentare di Vigilanza, si dimetta affinché l’opposizione possa, come è stato sempre garantito, prendere quel posto.

Qualcuno in verità già mormora o s’aspetta che il neo amministratore delegato Carlo Fuortes sia chiamato a trovare il compenso a Fratelli d’Italia negli anfratti dell’azienda. Ma sarebbe ben strano che il drago una volta giunto nella grotta della «maggiore azienda culturale dell’Italia» (ipse dixit) si acconciasse a compiere il mestiere di mezzano al quale il presidente Mario Draghi si è sottratto.

La presidente designata, Marinella Soldi, verrà bombardata di pressioni perché si faccia garante del “pluralismo”, cioè della lottizzazione partitica degli incarichi dirigenti dell’azienda. Minacciandola, in caso contrario, di respingerne la designazione in Commissione. Salvo che la sventurata se davvero temesse le minacce o cedesse alle lusinghe sarebbe fritta all’istante, innanzitutto sul piano dell’immagine che, a quanto capiamo dal curriculum, di certo non trascura.

Per non dire che per garantire quel tipo lottizzato di “pluralismo”, metodo antico per gestire le carriere dall’esterno dell’azienda, serve la connivenza dell’amministratore delegato, cioè Fuortes. Il che rinvia alla conclusione del punto precedente.

Caos Vigilanza

Chi si trova al centro del tormento è certamente la commissione di Vigilanza o meglio, in essa la destra di governo che deve decidere se votare contro la candidata di Draghi alla presidenza facendole mancare i due terzi di voti necessari alla conferma. Ma gli argomenti paiono o deboli o inconfessabili e, se il “marziano di governo” si tiene fuori dall’omertà consociativa, senza un minimo di ragione razionale non si va da alcuna parte.

È inoltre possibile, numeri alla mano, che in consiglio si coaguli un blocco di voti disposti a far bella figura intestandosi la riforma radicale dell’azienda. Non vediamo perché i designati da M5s e Pd (Alessandro Di Majo e Francesca Bria) debbano respingere questa tentazione. Tanto più che l’unico partito ostile fino in fondo è solo Forza Italia, che la Rai ha da sempre badato a congelarla al fine di tenere immobile il mercato italiano –  dell’audience generalista e dei ricavi – su cui si basano le fortune monopolistiche del Biscione di famiglia.

La componente giornalistica dei lavoratori Rai ha già dato il suo malvenuto all’anti consociativismo lottizzatorio espresso dal governo, rimbrottandolo per l’ardire di nominare consigliere Soldi e proporla nel contempo come presidente. Il che, tradotto in spiccioli, sta a dire che da parte di quel gruppo di mestiere si preferiva una diversa presidenza. Nella sostanza è ovvio che un’organizzazione informativa che trasuda lottizzazione da ogni poro si senta preoccupata per l’impatto che un esecutivo forte potrebbe avere su carriere e posti di lavoro.

Questa del resto è, accanto a Forza Italia, l’altra componente che storicamente inchioda la Rai a un presente eterno, ma privo di futuro. Tuttavia la materia è friabile rispetto al divenire concreto dei bilanci dell’azienda e un’iniziativa di riorganizzazione editoriale e strutturale ben pensata potrebbe dinamizzare questo blocco a-storico, tanto più offrendogli prospettive meno scontate e assai migliori delle attuali.

Sarà il caso di tenere gli occhi addosso alla commissione Lavori pubblici del Senato che ha giurato di voler elaborare una nuova legge in cui fissare punto a punto la missione e il modello di governo del servizio pubblico multimediale in questi tempi di social e piattaforme. Per ora, ogni partito ha depositato un disegno di legge tutto suo. Qualcuno se l’è dovuto scrivere da zero, qualche altro aveva un archivio più fornito. C’è da temere che siano tutti tentati di prenderla alle lunghe. Ma dovranno fare audizioni vere, compresa quella di questa Rai che, se non sbagliamo, sarà meno propensa a reggere il sacco all’eterna voglia di rinvio, semplicemente dicendo i problemi dove stanno.

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